“Centonove”
3 aprile 2009
IL SENSO DELL’UDC PER LA FEDE
“Non c’è laicità senza fede”: lo slogan ha campeggiato in vari manifesti tappezzanti i muri di Palermo. Indubbiamente un titolo azzeccato per attirare gli sguardi distratti dei passanti su un convegno organizzato dall’UDC e svoltosi venerdì 27 marzo, anche senza la presenza di alcuni big preannunziati, come ad esempio Totò Cuffaro e Rocco Buttiglione (il quale, forse, è stato scoraggiato da un imbarazzante errore di stampa per cui, accanto al suo nome, si leggeva “conlude” anziché “conclude”. Evidentemente, di altre “con-lusioni”, da quelle parti non se ne avvertiva il bisogno…). Lo slogan capovolge, su un registro paradossale, la tesi molto più comune “non c’è laicità se c’è fede”. Infatti la maggior parte di noi, se intervistata per strada e costretta a pronunziarsi su due piedi, sosterrebbe che là dove c’è fede religiosa, c’è rischio di integralismo, di fondamentalismo, di intolleranza. In realtà, a riflettere più a fondo, lo slogan “non c’è laicità senza fede” può custodire messaggi preziosi.
Almeno due. Il primo messaggio si basa sulla “fede” intesa nel senso ampio, generico, radicale di apertura spregiudicata, di fiducia incondizionata. E’ il senso in cui Kant sosteneva che ogni attività intellettuale presuppone una “fede razionale” nelle possibilità della mente umana: quale scienziato deciderebbe di dedicare l’intera esistenza allo studio dei bruchi o delle stelle se non fosse animato dalla “fede” nella capacità della ragione di conoscere davvero bruchi e stelle, di svelarne i meccanismi nascosti e le relazioni stabili? Similmente, sul piano storico-politico, chi si impegnerebbe per la libertà e per la democrazia se non fosse sostenuto dalla “fede” nella capacità dei propri simili di andare oltre le situazioni di ingiustizia, di oppressione, in cui versa la maggior parte degli abitanti del pianeta?
Un secondo messaggio che lo slogan paradossale dei manifesti dell’UDC potrebbe veicolare si baserebbe su un significato più diffuso del vocabolo: ‘fede’ come fiducia, affidamento, nei confronti di Gesù di Nazareth, il profeta di Galilea in cui i discepoli hanno riconosciuto l’incarnazione della Parola di Dio all’umanità. Anche in questa accezione, “non c’è laicità senza fede”: infatti Egli non era né prete né monaco, ha vissuto da predicatore ‘laico’ ed il suo messaggio - fortemente polemico verso le gerarchie ecclesiastiche del suo tempo - lo portò dritto dritto alla condanna a morte per crocifissione. Gesù il Cristo non ha fondato una nuova religione, ma un nuovo modo di vivere la fede senza apparati dogmatici né censure istituzionali: ha mostrato cosa possa significare vivere laicamente in un regime teocratico.
Purtroppo, in linea con la storia dell’UDC in Italia e in Sicilia, l’interpretazione dello slogan “non c’è laicità senza fede” emersa dalla relazione introduttiva e dalla quasi totalità degli interventi successivi si è rivelata ben diversa dalle due possibili che ho appena evocato. Un’interpretazione che si basa sulla differenza (opinabile, anzi francamente capziosa) fra una “vera” laicità (che si coniuga con una prospettiva religiosa confessionale ’superiore’ ) e una “falsa” laicità (che, in quanto ‘atea’ o indifferente al punto di vista religioso, sarebbe ‘laicismo’). Forse per l’assenza di alcuni esponenti di spicco preannunziati sui manifesti, il convegno ha privilegiato il racconto di esperienze sociali portate avanti da alcuni preti e da alcuni volontari cattolici, accontentandosi di un’accezione ristretta di “laico”: il battezzato che appartiene alla chiesa cattolica ma non è sacerdote. Insomma: alla fin fine, si è ripiegato su un modo poco ‘laico’ di riflettere sulla ‘laicità‘. La quale è, prima di tutto, dubbio, ricerca, curiosità, confronto paritetico: non esclude dunque nulla a priori (né la fede confessionale né l’assenza totale di fede), ospita qualsiasi tesi, ma a patto che venga sottoposta al pubblico dibattito a titolo di ipotesi. Senza laicità, insomma, non c’è né fede né miscredenza: c’è il caparbio dogmatismo di chi impugna la sua fede o la sua miscredenza come clava per imporre agli altri le proprie opzioni culturali e, non di rado, i propri interessi più materiali.
Augusto Cavadi