venerdì 19 dicembre 2008

ANDREA COZZO SU “E PER PASSIONE LA FILOSOFIA”


“Centonove” 19.12.08

QUANDO LA FILOSOFIA E’ PASSIONE

Piacevole e interessante questa presentazione della filosofia (”E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze, Di Girolamo, Trapani 2008, pp. 188, euro 16,50) destinata, in primis, ai non-filosofi (e che, dunque, anche nei licei sarà letta con profitto). Chi conosce l’autore, leggendo il libro – e quasi riascoltandone la voce nella mente – lo ritrova tutto: con la sua verve umoristica, la capacità comunicativa, la conoscenza, l’intelletto. Insomma: con il suo animo. I problemi principali della filosofia risultano molto ben presentati e,direi, anche in felice equilibrio tra aspetto teorico e implicazioni pratiche - di vita quotidiana. Personalmente mi sono piaciute molte pagine, sempre chiare e stimolanti: soprattutto quelle della parte terza dedicate a L’oltre della filosofia (e, tra queste, in particolare quelle sulla pratica amorosa). Chiarissimo poi mi è apparso il quadro esposto nelle parti prima (”Cinque buone ragioni per occuparsi di filosofia, pur senza farne un mestiere”) e seconda (”Di che si occupa chi non si occupa di qualcosa in particolare”).
Ovviamente non mancano i passaggi che mi risultano difficili da condividere. Per andare subito al cuore della divergenza: il capitolo “Della verità” e le implicazioni di questo aspetto che tornano qua e là (per esempio là dove la filosofia viene presentata come un dialogo finalizzato “a capire come stanno le cose”, laddove io avrei detto “a capire come stare -bene- tra e con le cose”). Con spirito di dialogo, vorrei chiedere: ferma restando la validità logica del principio di non-contraddizione, perché sostenere non solo che esso ammette la tolleranza, ma pure che “solo esso la rende possibile” e che, “se veramente venisse meno la forza della ragione, non resterebbe altra risorsa (almeno per le questioni essenziali) che le ragioni della forza”? Non c’è ancora la forza dell’amore? Quali sono gli Stati che esercitano la violenza perché si fondano “sulla sfiducia nella possibilità di pervenire ad asserzioni intrinsecamente vere”? A me sembra, piuttosto, che la violenza - degli Stati, come dei terrorismi di ogni genere- si fondi sulla pretesa opposta: cioè di essere pervenuti ad “asserzioni intrinsecamente vere”.

Nello stesso paragrafo da cui ho tratto le citazioni – e nel precedente - non riesco a far quadrare alcune affermazioni. Per esempio, Cavadi sostiene che il principio di non-contraddizione “asserisce che esiste una verità, ma non dice quale sia” (e qui condivido) e che (interpreto) sulla base di esso ” l’uomo possa attingere -sia pur parzialmente e reversibilmente - la ‘verità delle cose’ ” (è la tesi che attribuisce giustamente ai realisti, tra i quali, se non ho capito male, egli si colloca). Il mio problema è: se il principio di non- contraddizione dice solo che c’è una verità, senza dire quale essa sia, chi garantisce allora che in un certo momento questa verità la si stia cogliendo? Quello che possiamo dire, eventualmente, è solo una frase come “in questo caso qui, e per adesso, siamo tutti d’accordo”: e mai “questa è la verità“. Insomma, se proprio vogliamo ricorrere a questo termine così problematico termine, ciò che possiamo dire è: “questo è, in questo caso e per il momento, quello che noi crediamo -o siamo convinti - che sia la verità)”. Da questo punto di vista l’obiezione ad Aristotele, che Cavadi riporta, non ha bisogno neanche di essere formulata: è lui stesso, il grande pensatore greco, ad affermare giustamente che il tale di cui egli parla “si guarda bene” dal dirigersi in un pozzo o in un precipizio perché è “convinto che il cadervi dentro non sia affatto cosa ugualmente buona e non buona” e – conclude - “è evidente che tutti sono convinti che le cose stiano in un solo ed unico modo”. Per me, parlare di “convinzione, parere, accordo o disaccordo” e simili - piuttosto che di “verità” e di “ciò che è” - aiuta a dialogare e a restare umili senza per questo rinunciare a “stare nella realtà“. E’ la posizione attribuita a Protagora, nel “Teeteto”, e mi piace molto, anche perché mi pare pienamente razionale. Tale quindi da poter essere accettabile anche da Cavadi…

Andrea Cozzo

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