“Repubblica - Palermo”
16.7.08
RICOSTRUIRE LA POLIS OBIETTIVO DEI PROGRESSISTI
“L’incredibile scomparsa dalle istituzioni della sinistra che ha perso quasi 3 milioni di voti alle ultime elezioni politiche insieme all’insoddisfacente risultato del PD e alla piena vittoria della destra è stato un evento traumatico che ha colpito in profondità chi da anni, da una vita, è impegnato/a in politica per migliorare la società, combatterne le ingiustizie, schierarsi dalla parte dei più deboli, rivendicare diritti, allargare gli spazi di democrazia e partecipazione, costruire relazioni e occasioni di libertà“: esordisce così un documento firmato da una decina di palermitani, iscritti o elettori di Rifondazione Comunista, che tocca sia questioni interne al partito (che qui non ci interessano) sia tematiche più ampie che, invece, appaiono di notevole rilevanza per tutta l’area progressista e - direi - per qualsiasi organizzazione partitica. Infatti il breve testo, caratterizzato da diversi passaggi accorati che non fanno parte del politichese e che rivelano il genere femminile della maggior parte degli estensori (coordinati da Daniela Dioguardi, parlamentare uscente), tocca due o tre nodi nevralgici di metodo.
Il primo punto riguarda la saggezza di distinguere, biblicamente, il tempo per parlare dal tempo per tacere. L’efficacia dell’agire dipende anche dalla capacità di prepararsi all’azione nel silenzio e di intercalare, al ritmo frenetico delle scelte operative, degli spazi (apparentemente inutili) in cui “mettere in discussione se stessi e leggersi dentro”: di fronte alla estrema gravità di certe sconfitte elettorali, sarebbe consigliabile concedersi “una pausa di riflessione vera, un volerci/saperci ascoltare e contemporaneamente un andare fuori di noi e ascoltare l’esterno”. Da troppi anni questo invito a predisporre occasioni apposite, programmate, di consapevolezza critica e di progettazione meditata è caduto nel vuoto: c’è sempre una scadenza elettorale, una congiuntura internazionale o una polemica locale a cui dare la precedenza.
Ma se i partiti rinunziano ad essere laboratori di inventività pratica, a che cosa si riducono? Ecco un secondo nodo affrontato da questo documento, schietto e coraggioso come da molto tempo non capitava di leggerne. E la risposta, presa in prestito dal Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil, è dura ma lucida: “I partiti sono organismi….. costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”. Risposta tanto più significativa perché non viene da persone che hanno deciso di ritirarsi a vita privata, bensì da cittadini e cittadine che non vogliono rassegnarsi alla diagnosi letale e cercare - insieme a chi ha a cuore le sorti del Paese - una terapia. A cominciare dal ripristino di una democrazia interna non solo formale ma sostanziale: perciò dalla contestazione testarda, puntuale, faticosa di ogni “pratica autoritaria di demonizzazione/emarginazione del dissenso”. Che credibilità può avere un partito (o un’associazione o una università o una chiesa), quando chiede maggiori spazi di partecipazione democratica alla gestione dello Stato, se al proprio interno incoraggia invece il “conformismo”, il leaderismo, il carrierismo di chi sa fiutare - stagione per stagione - chi ha in mano i bottoni di comando?
La democrazia interna ad un’organizzazione partitica non costituisce comunque il test decisivo per l’elettore medio: e qui il documento sfiora un terzo, importantissimo, aspetto (che, a per la verità, avrebbe meritato un maggiore risalto). Che un partito non stabilisca le candidature centralisticamente, che rispetti alcuni criteri di rotazione e di non-comulabilità degli incarichi o che non ammetta deroghe sulla trasparenza dei tesseramenti sono questioni ‘oggettivamente’ rilevanti, ma al padre di famiglia o alla giovane inoccupata risultano ’soggettivamente’ troppo raffinate. Possono intrigare chi ha la pancia a posto. Un partito deve dare risposte - per quanto graduali e perfettibili - agli interessi reali degli elettori reali. Non si tratta di optare fra valori e interessi: ma di mostrare come in concreto la convenienza utilitaristica del rispetto dei principi etici (legalità, equità, solidarietà…). Questo obiettivo appartiene alla rosa dei compiti essenziali di qualsiasi partito (che non sia la struttura di copertura degli interessi di un’azienda privata). L’unica differenza ammissibile può essere tra chi risponde in maniera tattica per evitare di stravolgere il sistema nel lungo periodo (è la legittima posizione degli schieramenti conservatori) e chi risponde in maniera strategica sapendo spiegare perché, passo dopo passo, si sta mutando il sistema complessivo dei rapporti di forza (è l’irrinunciabile posizione degli schieramenti progressisti - a cui per altro essi hanno dimostrato di saper allegramente rinunciare).
Ma - tocchiamo qui un quarto, ultimo tema - per potere illustrare una politica concretamente indirizzata verso una società più equa e solidale, occorre che l’elettorato sia in grado di recepire un linguaggio diverso dal linguaggio dominante. In un clima culturale saturo di individualismo ed arrivismo, di esaltazione delle fortune economiche e mediatiche tanto improvvise quanto immeritate, i cittadini sono ancora in grado di intendere un progetto di ‘polis’ in cui il bene comune è più gratificante per tutti i singoli di qualsiasi altra condizione di privilegio, di sfruttamento, di guerra di tutti contro tutti? Ecco dunque aprirsi un campo immenso - e abbandonato - all’azione dei partiti: formare i propri dirigenti, militanti e simpatizzanti sarebbe già tanto (ed è - abbiamo visto - compito serenamente disatteso), ma sarebbe ancora poco. Occorrerebbe avere una politica culturale: che non significa necessariamente indottrinamento ideologico ma, più saggiamente, cura del modo di vedere la vita da parte del più ampio bacino dei potenziali elettori. Occorrerebbe, facendo tesoro di una delle lezioni più preziose del femminismo, capire ciò che il materialismo capitalistico ha, paradossalmente, capito da più tempo: che bisogna non solo fare i conti con le viscere e le tasche della gente, ma anche “lavorare sull’immaginario e sul simbolico, riuscendo a fare presa e ad orientare il desiderio e la ricerca di felicità, insita negli esseri umani”. Immani industrie del condizionamento mentale lavorano per convincere lettori ed ascoltatori che la felicità sia direttamente proporzionale all’acquisizione “della ricchezza, del successo e del potere”: chi insinua il dubbio, suggerendo l’ipotesi alternativa che “la felicità e la pienezza provengano dallo spendersi in relazione vera, non strumentale, con le/gli altre/i per un mondo più giusto e solidale”? Strappare un posto al consiglio comunale o avere dieci tesserati in più in una fabbrica del Sud sono traguardi degni di essere perseguiti. A cosa servono, però, se, per dirla con la Arendt, non ci impegniamo contestualmente nel rivitalizzare “un’eredità che non è più capace di parlarci in modo diretto e indiscutibile, ma che per continuare ad avere senso ha bisogno di essere interpretata, trascritta in nuovi concetti, simboli e metafore” ?
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