“Stella polare”
Trapani, Maggio 2008
anno XVI, n. 5
La mafia è l’anti- Stato?
Lo hanno intuito i filosofi orientali, poi anche i greci: la vita è intreccio di positivo e negativo. Non appena prende volto un valore, ecco la sua negazione ergersi dialetticamente contro. La giustizia non sfugge a questa regola generale che rende, forse, più interessante la vicenda umana, ma certamente anche più lacerante.
Dalla fine del XIV secolo in Europa si sono andati costituendo i primi Stati nazionali (Francia e Inghilterra), modello cui si sono adeguati nei secoli successivi altri Paesi europei (Spagna, Italia, Germania) e un po’ tutti gli Stati del mondo attuale. Ciascuno di essi ha segnato i propri confini territoriali e in essi ha inteso esercitare - in maniera autarchica - “il monopolio della violenza” (secondo la celebre definizione di Max Weber).
Questo processo evolutivo, tipico della Modernità, non è privo di ambiguità. Che l’amministrazione della giustizia non sia affidata allo scontro quotidiano fra i singoli cittadini, è certamente un passo avanti rispetto alla giungla o al Far West; ma nessuno ci garantisce che la giustizia statale sia giusta per il solo fatto che è esercitata dallo Stato. Quando uno Stato non è democratico, le sue sentenze possono essere legali (cioè secondo le norme in vigore) ma ingiuste: basti pensare alle leggi razziali in Italia durante il fascismo o in Germania durante il nazismo. Anche in regimi formalmente democratici - come l’Italia repubblicana dal 1948 - può accadere, come abbiamo constatato, che il Governo sia in mano a cittadini disonesti che, con l’appoggio della maggioranza parlamentare, modifichino le leggi in maniera tale da rendere legale - per interessi biecamente privati - ciò che prima non lo era. In questi casi il terzo potere (il primo è il Parlamento, il secondo è il Governo), intendo la Magistratura, può fare molto poco per difendere la giustizia dall’ingiustizia mascherata da legalità: compito dei giudici, infatti, è applicare le leggi vigenti, non contestarle o adattarle. Insomma: solo una attenta partecipazione del popolo sovrano può far sì che la legalità statuale si avvicini - o, per lo meno, non si allontani troppo - dalla giustizia umanamente individuabile.
La storia degli ultimi sessanta anni attesta che ci sono gruppi di potere, talora criminali (è il caso delle cosche mafiose), che approfittano della imperfezione costitutiva della legalità statuale per erigersi a difensori della gente comune e fare, in realtà, ciò che risulta più conveniente alla loro sete di dominio e di denaro. Da qui, ad esempio in Sicilia, il mito fraudolento della mafia come anti-Stato in difesa dei deboli e degli indifesi. Mito due volte fraudolento.
Prima di tutto perché le organizzazioni mafiose, a differenza ad esempio dei briganti e in genere dei delinquenti comuni, si mettono contro lo Stato solo se non riescono ad inserirsi nello Stato e a strumentalizzarlo. La mafia diventa anti-Stato, insomma, solo quando trova settori dello Stato che resistono alle sue infiltrazioni; altrimenti preferisce farsi Stato nello Stato, ‘mafiosizzare’ (se può passarmi il brutto neologismo) lo Stato.
Il mito della mafia come anti-Stato è ingannevole, poi, per una seconda ragione: essa - per riprendere una frase efficace di don Milani formulata in altro contesto e con altri riferimenti - “non serve i poveri, ma si serve dei poveri”. Se il sindaco mafioso o l’imprenditore mafioso o il sindacalista mafioso fossero davvero animati - come dicono e come vogliono far credere - da sentimenti di solidarietà sociale, non si adopererebbero per assumere qualche disoccupato ‘amico degli amici’ lasciando tutti gli altri in condizioni di disperazione e di ricattabilità; al contrario lavorerebbero, ognuno nel proprio ruolo, per accrescere i posti di lavoro e li assegnerebbero, man mano, in ordine di merito e di competenze. Essi invece aiutano solo chi promette loro un ritorno, un tornaconto: in bustarelle o, meglio ancora, in fedeltà elettorale. I mafiosi insomma aiutano pochi per evitare che, migliorando la condizione generale della popolazione, non si abbia più bisogno di bussare alla loro porta e di inginocchiarsi davanti alla loro poltrona. Essi fingono di aiutare gli altri, in realtà aiutano solo sé stessi e la propria cerchia di sodali. E fingono così bene che i loro beneficiati - quanti sono stati favoriti dai potenti disonesti - non se ne accorgono: vivono per anni convinti di essere stati privilegiati, senza sospettare di aver venduto la propria dignità. Ecco, a mio avviso, la tragedia della società siciliana attuale: è costituita a maggioranza (per fortuna non all’unanimità; e le minoranze morali dovrebbero non perdere la speranza di un futuro diverso) da cittadini che si sentono furbi solo perché sono diventati schiavi di pochi furbi e non ne hanno neppure consapevolezza.
Augusto Cavadi
(L’autore dell’articolo ha pubblicato vari libri sull’argomento. Con le edizioni “Di Girolamo” di Trapani: A scuola di antimafia, Strappare una generazione alla mafia, La mafia spiegata ai turisti. Questo ultimo tascabile è disponibile, a scelta, in sei lingue: italiano, spagnolo, francese, inglese, tedesco, giapponese).
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