martedì 25 marzo 2008

Intervista a Tania


“Una città”
Febbraio 2008
n° 153

INTERVISTA A TANIA
di Augusto Cavadi
San Salvador 20.10.2007

Tania Molina. Perché Tania?
Perché mio padre è comunista e nella decade in cui sono nata c’era una forte effervescenza nel processo rivoluzionario salvadoregno, il popolo stava surfeggiando l’onda rivoluzionaria. I modelli di riferimento erano altri fratelli che avevano lottato in altre zone del Continente, come Che Guevara e la sua compañera Tania: da qui la decisione di un trentatreenne che era al colmo del suo entusiasmo quasi romantico. Non so se lo sapeva, ma in qualche modo segnava il mio destino.
Tania la guerrillera: quando hai iniziato a seguire questa vocazione?

Da che ho memoria, mi accompagna la coscienza di un mondo diseguale, ingiusto e non di rado assassino. Già quando avevo tre anni fummo mandati in esilio dal Salvador in Nicaragua (mio padre era gravemente minacciato di morte, il partito gli ordinò di espatriare per organizzare dall’estero il sostegno alla lotta rivoluzionaria e la nostra famiglia fu la prima ad essere accolta come “rifugiata politica” dai sandinisti ) e a cinque anni mi iscrissi nei “pioneros” (l’organizzazione dei bambini figli dei membri del partito comunista salvadoregni in esilio) e nel gruppo analogo dei bambini sandinisti. Anche alle scuole superiori partecipavo alle attività parallele dei giovani comunisti e dei giovani sandinisti. Nel 1990, a poco meno di tredici anni, tornammo in Salvador e qui fui contattata da un dirigente: mi comunicò che ero stata designata dal partito per ricostituire il movimento studentesco. Così mi incorporai nella cellula, incominciai a ricevere i rudimenti della preparazione politico-militare, a lavorare clandestinamente per appoggiare il lavoro della guerriglia urbana. Poi fu quasi naturale passare nelle file dei guerriglieri che vivevano nelle montagne circostanti. Per fortuna, questo genere di lotta durò poco: nel 1992 fu stipulata la firma degli accordi di pace.
Finita la fase ufficiale della guerra civile (dico la fase ufficiale perché non passa mese - tuttora - che non venga assassinato un militante di sinistra), mi sono concentrata sull’obiettivo di non diventare pazza. Infatti dovetti fare i conti con la sproporzione fra il mio idealismo e le situazioni storiche effettive, fra la mia coscienza abbastanza immaginaria di far parte della banda dei buoni alla Robin Hood e la constatazione che non tutto nella militanza del partito era altrettanto puro. Mi sono accorta che il carattere rivoluzionario del nostro partito - per me sacrosanto - era stato messo fortemente in crisi da alti dirigenti e da quadri medi: il poeta Roque Dalton era stato assassinato, per esempio, da Joaquin Villalovos, il capo dell’ ERP, cioè a dire dell’esercito rivoluzionario del popolo. Sul piano più ordinario, fui sconcertata dall’atteggiamento della maggioranza dei militanti: quando arrivarono i dollari dell’AID (un organismo di sostegno finanziario internazionale supportato certamente dal governo statunitense), si pensò prima di tutto a salvare se stessi e i propri cari. La delusione per me fu traumatica: all’inizio dell’adolescenza, il crollo dei miei idoli mi fece sentire come sperduta nel mondo. Per quasi due anni fuggii in Nicaragua, quasi per cercare conforto psicologico nell’ambiente amicale che mi aveva accolto da piccola bambina profuga politica. Ma i miei genitori mi vennero a riacciuffare quasi per i capelli e mi riportarono in Salvador.
Questa delusione ha comportato il tuo allontanamento dal partito?
Sì, abbandonai il mio posto nella direzione nazionale della gioventù dell’FMLN (Fronte “Farabundo Martì” per la liberazione nazionale), ma sono rimasta a collaborare ad ogni progetto concreto: purché non vada contro i miei principi. Intanto mi sono avvicinata a quegli ambienti intellettuali, soprattutto artistici, che mi hanno aiutato a individuare i metodi e gli strumenti più idonei alla mia personalità per continuare l’impegno rivoluzionario. Avevo già quindici, sedici anni: ero assetata di cultura, di conoscenza. Un ottimo biglietto di presentazione fu per me il conseguimento del primo premio del settore ‘poesia’ nel Certame centro-americano di letteratura femminile giovanile. Ideai e organizzai, nel 1996, la prima mostra nazionale di arte erotica - “Erotismo versus necrofilia” - cui parteciparono ottanta fra i più apprezzati artisti del Salvador: per quindici giorni di seguito conferenze di sociologi ed altri accademici si alternarono con mostre di pittura, di scultura, di fotografia, di film. In vista di quell’appuntamento, un gruppo di pittori della mia città mi chiese di prestarmi come modella: accettai con orgoglio.
Ma anche questa fase della tua vita ha comportato le sue delusioni?
Veramente sì. Entrai nel giro degli artisti, ancora una volta con una grande fiducia nei loro discorsi sulla pratica rivoluzionaria dell’artista e ne uscii abbastanza delusa, non senza aver acquisito molti loro vizi. Imparai ad ubriacarmi, a fumare marihuana, a scopare con chi capitava, ma - peggio di tutto - imparai l’egolatria: come loro, più di loro, mi affezionai ai complimenti e agli applausi, alle adulazioni. La pubblicazione della mia raccolta di poesie El espejo del àngel (in edizione bilingue spagnolo-italiana) segnò l’apice della mia carriera come poetessa, ma anche l’abbandono della scena pubblica. Avevo bisogno interiore di esperienze più autentiche, più vere. Così mi decisi a partire e alcuni operatori italiani che lavoravano in Salvador per conto del Cric (”Centro regionale di intervento per la cooperazione”) fecero da ponte per il mio sbarco a Reggio Calabria. Veramente, più che uno sbarco mi sembrò un naufragio: avevo sognato di arrivare nella culla del Rinascimento, mi ritrovai nel covo della ‘ndrangheta, in una città che era passata dal feudalesimo al consumismo senza conoscere l’Umanesimo. Mi trovai in un contesto urbanistico brutto, deturpato: non capivo se fosse costruita a metà o distrutta per metà. Per fortuna, però, ho trovato delle bellezze naturali e antropologiche affascinanti: lo stretto di Messina, l’Aspromonte, le tradizioni etniche, la musica. Per non parlare del dialetto, anzi dei dialetti meridionali in genere (ho percorso in bicicletta, con una sorta di circo di strada, tutte le coste della Sicilia - isola di cui mi sono innamorata senza scampo - e sono arrivata sino in Grecia): i dialetti sono di una sonorità e di una varietà da provocarmi veri e propri orgasmi linguistici. Conobbi anche un bel esemplare di calabrese e rimasi incinta: Athos, il bambino bello e intelligente che è nato, è stato poi affidato dalle autorità italiane al padre ma io posso ospitarlo qui in Salvador per alcuni mesi ogni anno.

Come mai non sei rimasta in Italia?
Devo dire innanzitutto che attraversare l’Atlantico mi ha regalato la coscienza che l’ingiustizia del sistema capitalistico è molto complessa proprio perchè costruisce nel tempo un modello di società nel quale il soggetto diventa un acomodador della realtà - uno che manipola e aggiusta le cose - in funzione del proprio apparente benessere individuale. Dunque, mi resi conto che non potevo rimanere in una regione che, per quanto arretrata, fa parte del Nord del pianeta: fa parte, cioè, di quella porzione del mondo che sfrutta le grandi maggioranze per permettersi il lusso di avere tre automobili o di gettare il cibo superfluo. Una porzione del mondo che, pur sapendo che esiste una enorme disuguaglianza con il resto dell’umanità, preferisce conservare il proprio status quo e non ha nessuna intenzione di ribellarsi e di lavorare per il cambiamento. Nel tuo Paese ho iniziato la mia attività di artista di strada, in particolare ho imparato a fare circo di strada e ad adottare metodi di educazione attiva secondo l’indirizzo del CEMEA del Lazio (”Centro di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva”, di matrice francese) la cui presidente è Paola Della Camera. Ma ho avvertito l’esigenza di tornare in Salvador per costruire qualcosa di più consistente e di più duraturo rispetto a ciò che mi poteva permettere una vita nomade. Qui ho ritrovato le mie radici: non per regresso nostalgico, ma come linfa vitale. Una mia nonna era irlandese, ma un’altra - la madre di mio padre - india: camminava scalza ed era molto attaccata alla sua lingua e ai suoi costumi. Sai che le donne nahuat hanno sofferto, sino ad anni recenti, per resistere al divieto di indossare el refajo, la loro gonna tradizionale? Ho scoperto nella mia terra varie mie progenitrici morali, come una donna india, Prudenzia Ayala, sprezzantemente chiamata Prudenzia la pazza perché nel 1932, per la prima volta nell’Ispanoamerica, osò candidarsi - lei donna e per giunta india e ragazza madre- alla presidenza della Repubblica salvadoregna. Anch’io, nel mio piccolo, sono considerata pazza, sia quando vengo marchiata per le mie trasgressioni sia quando vengo complimentata per qualche frutto della creatività. In vista di uno spettacolo sto approfondendo il mito della Siguanaba, una donna apparentemente bella condannata - dopo una relazione con un figlio di Dio - a trasformarsi in figure orribili: il nostro popolo è naturalmente religioso. Chiese e sette proliferano perché il divino, dalle nostre parti, non è una questione cerebrale: lo sentiamo nelle viscere. Io stessa, la sera, non vado a dormire senza prima concedermi una lunga pausa di orazione: cosa che faccio secondo la mia tradizione, ben diversa da quella cattolica. Adesso sto lavorando ad una scuola per artisti di strada in modo da promuovere la formazione di operatori sociali attraverso le arti che possano distribuirsi nel mio Paese, soprattutto per rinforzare l’auto-organizzazione delle comunità locali. E’ chiaro che questa azione avrebbe delle conseguenze positive sia, in prospettiva, per la costruzione di una coscienza rivoluzionaria (e dunque per la tensione verso una società più giusta) sia, nell’immediato, per contrastare il fenomeno della delinquenza giovanile e dell’abbandono minorile.

Dunque la tua è ormai una battaglia senza idoli e senza eroi?
In un certo senso sì, perché so che la rivoluzione è un processo sociale. Però mantengo chiari i miei due fari nella vita. Il primo: la mia cosmovisione, secondo la quale gli esseri umani facciamo parte della grande piramide dell’universo e la lotta interiore è vera solo se è contro l’orgoglio, l’ambizione, l’egoismo, la menzogna, l’ignoranza e l’ingratitudine. Ho vissuto anni molto intensi, ma adesso mi pare di avere raggiunto un certo equilibrio. Non vivo solo di slanci emotivi, cerco di pensare e soprattutto di tornare sui miei pensieri. Mi sento liberata da molti attaccamenti e, perciò, da molte paure. Non temo di perdere né beni materiali né affetti, credo di non temere neppure la morte. Ma, intendiamoci, non significa che vivo senza passioni (mi piacciono quasi tutti i maschi, almeno quelli che hanno un cuore generoso); solo che non sono più governata dalle mie passioni. Sarà questa gioia di vivere intensamente la giornata, momento per momento, la vita eterna di cui ha parlato Gesù nei vangeli? Il secondo: l’impegno morale verso tutte e tutti coloro che sono morti lungo la storia fedeli alla lotta per un mondo migliore.

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