“Repubblica-Palermo”
27 febbraio 2008
FORZE DELL’ORDINE A LEZIONE DI NONVIOLENZA
Soprattutto se siamo abitualmente severi con noi stessi, abbiamo il diritto - anzi l’obbligo - di mettere in evidenza i primati positivi della nostra città. Palermo non ne ha molti, ma tra questi pochi c’è un’attiva minoranza di cittadini che ha scelto di mettersi alla scuola della nonviolenza gandhiana. Che è scuola di pensiero, di studio, di riflessione critica, ma anche - inseparabilmente - laboratorio pratico di esperimenti creativi. E proprio a Palermo si è realizzato un esperimento d’avanguardia: trenta operatori della Guardia di Finanza, prima, quaranta membri dell’Arma dei Carabinieri, poi, hanno seguito - del tutto volontariamente - un corso di formazione alla nonviolenza proposto da Andrea Cozzo, che di questa disciplina si occupa ormai da anni nella Facoltà di lettere e filosofia del nostro Ateneo.
Da pochi giorni è disponibile anche in città (presso la libreria delle Paoline) un numero speciale dei Quaderni di Satyagraha in cui quelle due sperimentazioni sono raccontate con tutti i dettagli e i documenti desiderabili. Già solo il titolo del quaderno - Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione. Manuale per le Forze dell’ordine - lascia intendere che si sia trattato, come scrive il questore Nicola Zito, di una “scommessa ardita”. Gli scontri ricorrenti fra manifestanti e forze di polizia - che hanno toccato anche in Sicilia punte tragiche come l’uccisione di Raciti a Catania - farebbero supporre che il dettato costituzionale (secondo cui la polizia di Stato avrebbe il compito di intervenire “come strumento di tutela dei diritti contro la violenza, intesa come sopraffazione e grave lesione dei diritti dell’uomo”) sia destinato a restare sulla carta, senza nessuna incidenza concreta. E non è un caso che dalle nostre parti sbirru - il termine dialettale con cui si denominano i membri delle Forze dell’ordine - venga usato abitualmente (tranne quando qualche assessore regionale, mentre si intrattiene affabilmente con amici mafiosi, lo intende in senso vezzegiativo) come offesa, denigrazione infamante.
Solo un’inversione radicale di tendenza, nella mentalità e conseguentemente nello stile ordinario dei cittadini in divisa, può indurre nei concittadini - che talora a torto, talora a ragione, si ritengono vittime più che beneficiari - un mutamento di prospettiva e di atteggiamento nel rapportarsi con chi ha, anzi dovrebbe avere, il monopolio delle armi.
Come è facile intuire - e come questi preziosi racconti confermano - non si tratta di indebolire le ragioni della legalità né, ancor meno, di privare di mezzi coercitivi necessari chi è istituzionalmente deputato a farle rispettare. Si tratta, piuttosto, di ripensare i fini e le modalità di esercizio degli apparati repressivi: di inserirli in una “cultura del servizio” che sradichi anche solo l’apparenza di una condizione di privilegio di chi può dare ordini e farsi obbedire. A tale scopo Cozzo suggerisce ai suoi interlocutori di abbandonare il modello sanzionatorio per adottare un modello relazionale. Più precisamente, un modello di relazione terapeutica, di cura: “come il medico cerca di combattere la malattia ma non il malato e, anche quando ritiene di non potere riuscire nell’intento senza asportare tutta intera la parte malata, cerca di non infliggere sofferenza al malato (per esempio somministrandogli un anestetico) , così noi cerchiamo di combattere l’ingiustizia ma non colui che è ingiusto, cioè l’azione ma non la persona, e anche quando non riusciamo a fare la prima cosa senza la seconda, possiamo pur sempre almeno preoccuparci di ridurre al minimo quest’ultimo aspetto”.
Indicazioni di questo genere, istruttive in tutta Italia (non è un caso che Cozzo abbia riproposto il corso di formazione anche ai Vigili Urbani di Pescara), sono singolarmente urgenti per territori in cui forti organizzazioni criminali prosperano in un clima di “alegalità sistemica” (La Spina). In cui, per dirla semplicemente, la legge è uguale per tutti, tranne che per sé e per i propri amici. E’ urgente capovolgere, con la prassi quotidiana, questa filosofia di vita e arrivare a che il pubblico funzionario, armato di pistola o di timbro, tratti gli estranei con la delicatezza con cui tratta spontaneamente gli amici e gli amici con l’imparzialità che gli viene facile adottare nei confronti degli sconosciuti. Un’utopia? Forse. Ma, come sosteneva Edgar Allan Poe, ci sono molte cose che sfuggono a coloro che si limitano a sognare solo di notte.
Augusto Cavadi
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