Centonove 15.2.2008
Dalla parte di Croce
Livio Ghersi, sino a poco tempo fa funzionario dell’Assemblea regionale siciliana, è autore del volume “Croce e Salvemini. Uno storico conflitto ideale ripensato nell’Italia odierna”, pubblicato a Roma nell’ottobre del 2007 per i tipi di Bibliosofica e che ora è stato oggetto di una prima ristampa.
Il volume sarà presentato a Palermo (Hotel Jolly, venerdì 15 febbraio, ore 16.15) nel corso di un seminario con la partecipazione di Liliana Sammarco, Paolo Bonetti, Luigi Compagna, Ernesto Paolozzi, Augusto Cavadi, Stefano de Luca e Pasquale Dante.
Una seconda presentazione si terrà a Messina (Hotel Royal Palace, venerdì 29 febbraio, ore 16,30), nel corso di un seminario con la partecipazione di Girolamo Cotroneo, Giuseppe Buttà, Dino Cofrancesco, Giuseppe Gembillo, Antonio Saitta, Raffaello Morelli, Giovanni Feliciani.
Qui di seguito una breve conversazione con Livio Ghersi.
Dottor Ghersi, Lei non è uno storico delle idee per professione. Da dove dunque l’idea di impegnarsi in uno studio così corposo su “Croce e Salvemini”?
Si tratta di autori che, grazie a mio padre, ho cominciato a leggere subito dopo la licenza liceale, quando frequentavo i primi anni dell’università. Ricordo una bella biografia di Italo de Feo, titolata “Croce. L’uomo e l’opera” (1975), che mi ha comunicato una passione nei confronti di Croce che, nel tempo, non è mai venuta meno. Ricordo che consultavo continuamente un’antologia del settimanale di Salvemini “L’Unità“, curata da Francesco Golzio e Augusto Guerra, pubblicata nel 1962, come quinto volume della collana “La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste”. L’esigenza di scrivere il libro mi è venuta nell’ottobre del 2000, quando lessi il saggio di Sergio Bucchi «Una storia lunga cinquant’anni», che costituiva l’introduzione di una nuova edizione de “Il Ministro della mala vita”, uscita allora per ii tipi di Bollati Boringhieri. Mi diede molto fastidio leggere che veniva riproposta, senza alcun corredo critico, la durissima polemica che Salvemini sviluppò contro Croce, a partire dalla formazione del secondo governo Badoglio in poi. Trovo non rispondente a verità continuare a ripetere il ritornello del Croce “conservatore”. Trovo ingeneroso non riconoscere che Croce diede, insieme ad altri (De Gasperi, Sforza, Togliatti), un contributo importante affinché i Paesi vincitori del secondo conflitto mondiale si riconciliassero con lo Stato italiano, finalmente restituito a libere istituzioni rappresentative.
In che senso Lei pensa che Salvemini sia la perfetta antitesi di Croce?
All’inizio del mio lavoro, stilai una sorta di schema sintetico per stabilire i termini del confronto. Sotto la voce “Croce” scrissi, in colonna: «Filosofia / Storicismo / realismo / democrazia come male minore / Giolitti uomo di Stato». Sotto la voce “Salvemini”, in corrispondenza alle voci della precedente colonna: «Anti-filosofia / Storia come scienza / moralismo / democrazia come valore / Giolitti ministro della mala vita». Ovviamente, lo studio e l’approfondimento hanno poi confermato che la vita reale è sempre più complessa e ricca di qualsiasi schema interpretativo. Ma, effettivamente, tra Croce e Salvemini c’è una profonda differenza di impostazione. Ritengo, come Croce, che gli esseri umani abbiano l’esigenza di trovare un orientamento nella loro esistenza, e che la filosofia possa aiutarli a questo scopo. Il problemismo salveminiano, il misurarsi con problemi precisamente individuati per cercare di dar loro soluzioni concrete, va benissimo, a condizione però che ci sia una scala di valori, cioè che l’individuo impari a distinguere ciò che è veramente importante da ciò che lo è meno, e che, quindi, anche nell’approccio ai problemi sia capace di stabilire delle priorità. Il torto di Salvemini, secondo me, è quello di avere mosso guerra contemporaneamente alle religioni, alla filosofia, alle ideologie, o teorie generali che dir si voglia. Invece, la filosofia, la fede religiosa, perfino le tanto disprezzate ideologie, svolgono tutte, meglio o peggio, lo stesso compito: dare un orientamento. Si intende che non tutte le religioni, le concezioni filosofiche, le ideologie, si equivalgono: quindi, bisogna fare la fatica di distinguere e di scegliere.
Lei si considera dunque una figura abbastanza anomala di crociano cattolico?
Sono radicalmente laico. Essere “laico” per me significa non accettare il principio di autorità in questioni di coscienza. Di conseguenza, non posso in alcun modo essere definito cattolico; non soltanto perché non sono praticante. Tuttavia, a differenza di quanto ritengono gli eredi di Voltaire o di Marx, ritengo che le religioni non siano «inganno dei preti» ed «oppio dei popoli». Rispondono ad esigenze umane reali e profonde. In particolare, ritengo che il Cristianesimo sia una delle componenti essenziali sulle quali è stata edificata la nostra civiltà. Croce sentì il bisogno di scrivere il “Perché non possiamo non dirci cristiani” come reazione al nuovo barbaro paganesimo di cui erano portatori i nazisti.
Per quanto riguarda l’essere “crociano”, oggi in Italia viviamo il paradosso che la creatura prediletta di Croce, l’Istituto italiano di Studi storici di Napoli, abbia come direttore un filosofo che è contemporaneamente presidente della Fondazione “Giovanni Gentile”. Fa impressione che chi, per il suo stesso ruolo, dovrebbe difenderlo, abbia scritto che Croce (morto nel 1952) non abbia prodotto nulla di serio dal punto di vista filosofico dopo il 1909. Cioè andava bene finché era in sintonia con Gentile. Nel mio piccolo, invece, senza avere la pretesa di averlo capito meglio di altri, difendo tutto il pensiero di Croce, anche per il lungo periodo che va dal 1909 al 1952. Da questo punto di vista, ho avuto come ideale maestro Adolfo Omodeo.
Torniamo al moralismo di Salvemini.
La stroncatura di Croce da parte di Salvemini è chiara dimostrazione che i moralisti — pure in perfetta buona fede — possono prendere solenni cantonate. Più in generale, la personalizzazione della polemica politica porta a conseguenze rovinose e controproducenti per chi la pratica.
Possiamo dire, dunque, che il suo grosso volume è — in sostanza — un’apologia di Benedetto Croce?
Secondo me Croce è un autore importante, da cui ancor oggi ci sarebbe molto da imparare. Mi sono sforzato di spiegare tre concetti che sono fondamentali per la comprensione del suo pensiero: l’idealismo, lo storicismo, il liberalismo. Ad ogni concetto è dedicato un capitolo. Tuttavia, le mie convinzioni non sono sempre collimanti con quelle di Croce. Mi sono sforzato di conciliare lo storicismo di Croce e la ragione illuministica di Kant. Il Kant del «Sapere Aude!», il grande filosofo che con l’imperativo categorico, ed il connesso imperativo pratico, ci ha dato una bussola per orientarci nella condotta morale. In un passo del libro cito Guido De Ruggiero che, per primo, ha teorizzato questa possibilità di tenere insieme Croce e Kant.
Questo per quanto riguarda i contenuti. Ritiene che vi siano delle peculiarità anche nello stile letterario?
La tecnica di scrittura che ho usato è l’opposto di quella normalmente seguita nella produzione scientifica ed accademica. Non ho mai dato per scontato alcunché. Non ho fatto “dotti” richiami che soltanto pochissimi sono in condizioni di cogliere. Nel libro si lascia molto parlare Croce (così come Salvemini, o gli altri autori, di volta in volta, citati). Le citazioni sono riportate fra virgolette e in nota sono sempre puntualmente indicati i riferimenti bibliografici. Del resto, lo scrupolo filologico e la precisione nelle citazioni sono tra le prime cose che impara chi abbia una qualche dimestichezza con le opere teoretiche crociane sulla storia e la storiografia. L’esattezza dei riferimenti bibliografici è indice di onestà intellettuale: perché rende “trasparente” il lavoro, consentendo a chiunque di fare tutte le verifiche che vuole, ogni qual volta ne ravvisi l’esigenza.
Visto che la letteratura crociana è sterminata e che, in particolare, il pensiero politico di Croce è stato analizzato da ogni possibile punto di vista, ritiene che un lettore mediamente informato possa imparare qualcosa di nuovo dal suo libro?
Ho la presunzione di rispondere di sì. Invece di seguire il metodo consueto, che è quello di prendere in mano il libro «Elementi di politica» e di iniziare a commentarlo, ho seguito un percorso diverso. Ho cercato di ricostruire il mondo culturale di Croce ed il rapporto con i “suoi” autori. In particolare, nei due paragrafi che ho dedicato alla Destra Storica ed a Silvio Spaventa, si trovano informazioni che non è facilissimo trovare nella pubblicistica corrente. Ho messo poi a confronto la concezione liberale di Croce con i principali critici del suo liberalismo; ad ogni nome che di seguito cito corrisponde una diversa interpretazione critica: Gaetano Salvemini, Norberto Bobbio, Ernesto Galli della Loggia, Nicola Matteucci, Giovanni Gentile. Mi sembra che Croce sia uscito bene dal confronto.
Nel riesame del rapporto polemico fra Croce e Salvemini, Lei vede delle indicazioni istruttive per molte problematiche a noi contemporanee.
Nell’ambito della storia delle idee, riflettere sul pensiero di Croce significa recuperare consapevolezza che l’ideale liberale è in sé cosa diversa dall’ideale democratico. Nel libro ho indicato i sei punti che, secondo me, costituiscono la sostanza di una concezione liberale. Tra questi ho incluso pure «l’onesta accettazione del metodo democratico per l’assunzione delle decisioni collettive». Ma sono gli altri cinque punti che danno un senso compiuto alla teoria liberale. Li elenco: 1) garanzia di tutte le libertà fondamentali dei cittadini; 2) legame indissolubile fra libertà individuale e responsabilità personale; 3) Stato di diritto; 4) riconoscimento di un interesse pubblico, distinto dagli interessi privati; 5) società aperta, che consenta la libera affermazione delle capacità e dei meriti, in concorrenza fra loro. Il libro vorrebbe appunto contribuire a far comprendere che proprio l’ideale liberale è quello più frainteso e nei fatti meno difeso nella realtà italiana odierna.
Un liberale crociano, dunque di orientamento storicistico, è anche necessariamente un relativista?
Il primo paragrafo dell’ultimo capitolo ha un titolo inequivoco: «Confutazione del relativismo». Lo apro con questa citazione di Croce: «A proposito dello storicismo, si parla di relativismo; dunque vuol dire che non s’è compreso nulla della natura, della estensione e della profondità di quel pensiero». Il relativismo, nell’accezione in cui viene comunemente inteso, produce guasti: si traduce, infatti, in indifferentismo morale. La mia critica del relativismo deriva da Croce, ma deriva pure da Kant. Mi sforzo di far comprendere gli ambiti in cui non soltanto è possibile, ma doveroso, ripristinare il giudizio vero/falso.
Vi sono altre questioni all’ordine del giorno che sono state toccate nel suo libro?
Tutto l’ultimo capitolo riguarda questioni con cui ci misuriamo oggi, ma ricondotte al loro significato essenziale, senza stare ad inseguire la cronaca.