“Repubblica - Palermo” 8.1.08
Augusto Cavadi
IL FU ANTONINO MICELI TAGLIEGGIATO DAL RACKET
Per il movimento antimafia siciliano è un momento positivo. Ad evitare di sciuparlo possono aiutarci la lucidità delle analisi e la memoria del passato, anche recentissimo: la signoria di Cosa nostra e delle altre cosche mafiose sulla vita sociale ed economica è ancora solidamente radicata e chi prova a contrastarla dev’essere disposto a pagare prezzi alti. Questo ce lo dobbiamo ricordare a vicenda non per scoraggiarci, ma per evitare di scambiare una guerra civile tuttora in corso con una passeggiata domenicale. Pagare prezzi alti non significa necessariamente - per fortuna - rimetterci la vita; significa però essere disposti ad accettare rivolgimenti esistenziali, trasferimenti radicali e, quel che più pesa, incomprensioni da parte di quegli organi dello Stato che per primi dovrebbero attivarsi con efficienza ed efficacia. Un “testimone di giustizia”, l’imprenditore gelese Antonino Miceli, ha provato a raccontare la sua esperienza in un libro un po’ naif, ma proprio per questo schietto e avvincente: Io, il fu Nino Miceli.
Storia di una ribellione al pizzo. Il titolo allude - come è facile intuire - alla necessità, per ragioni di sicurezza, di mutare residenza e identità anagrafica: “Prima c’era una vita borghese, ora c’è un’altra esistenza nella quale io ho imparato a dimenticare me stesso, sono un uomo senza vero passato, penso solo al presente e al futuro, e tuttavia sono un uomo soddisfatto della scelta fatta, anche se mi ha sconvolto la vita. Anzi, questa avventura mi ha insegnato a conoscere meglio me stesso e gli altri esseri umani nei loro peggiori istinti, mi ha consentito di valutare uomini e cose. Quanto profondamente potere e denaro possono incidere sulle relazioni interpersonali. Questa storia mi ha insegnato che da soli è impossibile vivere, ma in compagnia si fa una fatica sovrumana”.
La mafia, vista e annusata da così vicino, non suggerisce al protagonista solo considerazioni filosofiche ed etiche di sapore schopenhaueriano (come non ricordare i due porcospini che sentono freddo e si avvicinano ma, avvicinandosi, si pungono e si respingono?). Egli affronta anche gli aspetti politici e legislativi della sua vicenda, aspetti che riguardano dunque l’intera categoria delle persone soggette a misure protettive analoghe: e qui emergono contraddizioni normative e intralci burocratici. Alla fine arriva anche il risarcimento economico che consente a Miceli di aprire una nuova attività commerciale: a dodici anni dall’inizio del calvario, dopo aver fatto i conti con uno “Stato debole con i forti, debole con la mafia, ma forte con i deboli”, che preferisce relegare il sistema di dominio mafioso a questione periferica e passeggera. Come osserva amaramente Tano Grasso nella argomentata prefazione, “la questione non riguarda solo uno schieramento politico, è trasversale, attraversa tutti i partiti” e ha origine dalla “ossessione elettorale” che induce a fare non le battaglie giuste, ma quelle che - sulla base dei sondaggi - si suppone accrescano il consenso immediato. “Non è così che si realizza una moderna democrazia”: “imporre come tema nazionale la questione della lotta alla mafia” può pure, sul momento, non strappare gli applausi di un’opinione pubblica distratta o collusa, ma “nella prospettiva di un paese libero dalle mafie si acquisisce forza, prestigio e anche voti, ben consolidati”.
RIQUADRO
Antonino Miceli racconta le proprie vicissitudini di concessionario di automobili di Gela che, dopo aver subito intimidazioni e incendi dolosi, collabora con la magistratura, ottiene la condanna degli estortori ma è costretto a rifugiarsi con la famiglia in una località segreta e a mutare identità. Il libro (Io, il fu Nino Miceli. Storia di una ribellione al pizzo, Edizioni Biografiche, pagine 166, euro 14) è impreziosito da una Prefazione di Tano Grasso che è stato molto vicino al protagonista in qualità sia di collega sia di commissario straordinario del governo per la lotta al racket e all’usura.
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