giovedì 31 gennaio 2008

DA 120 ANNI A PALERMO


“Repubblica - Palermo”
31.1.08

L’EPOPEA DEI SALESIANI

Proprio il 31 gennaio 1888 (esattamente120 anni fa) moriva in Piemonte don Giovanni Bosco, uno dei santi più popolari della storia cattolica recente. Anche in Sicilia, come in altre 128 nazioni del pianeta, i suoi religiosi (”Salesiani” in omaggio a San Francesco di Sales) e le sue religiose (”Ausiliatrici” in omaggio alla Madonna) aprirono istituti dedicati non solo alla vita liturgica ma anche alla mission specifica: evangelizzare i giovani ed educarli ad una cultura del lavoro responsabile e qualificato. A Palermo questo significò, il 25 marzo del 1902, la fondazione del Collegio “Sampolo”. Verso gli anni Trenta, fu possibile acquistare, a ridosso del viale della Libertà, uno spazio che servisse come Oratorio estivo, prima, e successivamente, verso gli anni Cinquanta, come Scuola per gli alunni ‘esterni’ che, dopo le lezioni, tornavano alle famiglie di provenienza. Nacque così il “Ranchibile”, polo scolastico destinato ai figli delle classi medie ed alte: Liceo Scientifico e solo maschile sino al 1988, da quella data anche Classico ed Economico nonché aperto alle ragazze (come da anni aveva deciso il suo ‘contraltare’, il non meno prestigioso “Gonzaga” dei Gesuiti). In quello stesso periodo, non lontano dal “Ranchibile”, i Salesiani accettano di gestire anche una parrocchia a ridosso di via Marchese di Villabianca: prestando singolare attenzione, anche da qui, alla catechesi e all’animazione dei più giovani.

Come don Bosco, i Salesiani di Palermo sanno di dover privilegiare - o per lo meno di non dover trascurare - i giovani in condizioni di partenza più sfavorevoli: così, subito dopo la prima guerra mondiale, aprono a Santa Chiara, nel cuore di Ballarò, un istituto per orfani da avviare al lavoro di tipografo, falegname, rilegatore, calzolaio e sarto. Molti di questi acquistarono fama meritata sia per preparazione che per correttezza: sino al boom dell’arredamento fabbricato industrialmente, sono state rare le famiglie che non abbiano avuto in casa un armadio o un salotto costruito da un ex-alunno salesiano. Quando, negli anni Sessanta, gli spazi del centro storico risultarono angusti, la formazione professionale - allargata verso nuove specializzazioni tecniche - fu spostata in un nuovo edificio in via Evangelista Di Blasi (l’attuale “Gesù Adolescente”) e i vecchi locali di Ballarò servirono come centro di accoglienza per famiglie disagiate e poi per immigrati, gestito da figure in qualche misura mitiche come don Rocco Rindone e - successivamente - don Baldassare Meli (che, dopo molte battaglie contro la pedofilia nel quartiere, non sentendosi adeguatamente sostenuto dai confratelli, ha lasciato la città e la stessa Congregazione salesiana per andare a fare il parroco nella Diocesi di Mazara del Vallo).
Quante migliaia di cittadini hanno attraversato, per segmenti più o meno significativi della loro vita, questi spazi? Impossibile fare un conto degli alunni, degli insegnanti, dei volontari, degli obiettori di coscienza al servizio militare, dei sostenitori e dei fruitori di così diversificati servizi. Ci sono stati dei momenti - per esempio in occasione delle penultime elezioni regionali - in cui la contesa elettorale fra un ex-alunno dei Gesuiti, Leoluca Orlando, e un ex-alunno dei Salesiani, Salvatore Cuffaro, sembrò acquistare un significato simbolico: quasi di contrapposizione fra due modi alternativi di intendere il rapporto fra la fede personale e l’impegno nel sociale. La realtà, ovviamente, era più complessa: non tutti i Gesuiti si riconoscevano nella ‘laicità‘ di Orlando così come non tutti i Salesiani nel ‘confessionalismo’ di Cuffaro (e, meno ancora, nella spregiudicatezza del suo illustre predecessore Marcello Dell’Utri). I due potenti Ordini religiosi, d’altronde, erano - e restano - affiancati, per saecula saeculorum, in una stessa battuta umoristica: “A Dio, onnisciente, sfuggono solo due cose al mondo: dove trovano tanti soldi per le loro opere i Salesiani e cosa pensa davvero un Gesuita”.
Ma cosa caratterizza, almeno nel ricordo di alcuni ex- alunni, il metodo educativo “preventivo” di don Bosco? Ascoltando varie testimonianze, ritornano con più insistenza due note. La prima, positiva, è di un approccio esperienziale più che dottrinario: detto in parole più semplici, i Salesiani ritenevano che l’esempio dei preti e degli allievi più grandicelli fosse molto più efficace, pedagogicamente, delle prediche. Da qui la prossimità degli educatori a tutti i momenti di vita quotidiana degli educandi (studio, preghiera, ricreazione, attività musicali, sport…). Ma proprio questa vicinanza tradiva, almeno sino ad una ventina di anni fa, una seconda nota caratteristica - e molto meno simpatica - degli ambienti salesiani: la tendenza a controllare, con una occhiutaggine che in qualche caso risultava maniacale, le pieghe della psicologia adolescenziale, soprattutto in relazione al tema della ‘purezza’. Che significava attenzione un po’ ossessiva a quelle che, in situazioni di segregazione monosessuale, venivano considerate le due tentazioni più insidiose: l’amore ’solitario’ e le amicizie ‘particolari’ .
Intanto passano i decenni, nella Chiesa cattolica mutano le mentalità e le sensibilità. Qualcosa, gloriosamente, resiste: come il Cineclub “Don Bosco” che continua a rappresentare, per moltissimi fruitori, l’occasione preziosa di vedere film che i circuiti commerciali boicottano oppure ospitano per pochissimi giorni. Con pregi e difetti, la ventata della secolarizzazione investe anche gli ambienti dei discepoli di don Bosco, rendendoli più disinvolti. Così neanche borghesi di successo, come Alessandro Albanese, il presidente del potente consorzio ASI (Area di sviluppo industriale), nutrono dubbi: e iscrivono i loro figliuoli in quegli stessi corsi che hanno frequentato da studenti.

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