martedì 30 dicembre 2008

LA SVOLTA DELLA FILOSOFIA


“Palermo - Repubblica”
30 dicembre 2008

GIUSY RANDAZZO
La svolta della filosofia
Cieffe - Erga
Pagine 128
10 euro

Dal XIX secolo lentamente, ma inesorabilmente, psicologia e filosofia hanno concordato una forma di “separazione giudiziale” consensuale: col risultato - non proprio esaltante - di impoverirsi entrambi. Da qui i tentativi di invertire la direzione di marcia. La psicologia prova ad allargare i suoi orizzonti e ad arricchire i suoi strumenti culturali rileggendo alcuni ‘classici’ della filosofia ; quest’ultima, in alcuni esponenti più creativi, prova a tornare sulle strade degli uomini e delle donne ‘comuni’ per ascoltarne le domande autentiche e sostenerne i tentativi di risposta. Il libro di Giusy Randazzo, una vivace siciliana che presiede a Genova l’Associazione italiana psicofilosofi, intitolato La svolta della filosofia. Consulenza filosofica e relazioni d’aiuto, racconta - anche con riferimenti ad esperienze autobiografiche - alcuni momenti di questo itinerario: non privo di rischi, ma neppure di prospettive promettenti per il benessere integrale della società (che potrebbe essere liberata dall’idea che ogni disagio sia necessariamente patologico).

mercoledì 24 dicembre 2008

DONNA E PASTORA


“Centonove” 24.12.08

DONNA E PROTESTANTE ?
FUORI DALLE CORSIE!

Elisabetta Ribet, 35 anni, piemontese, da 5 anni pastora della chiesa valdese-metodista della Noce a Palermo. E’ una donna dai modi aggraziati, lo sguardo attento, il sorriso acceso da un vivo senso dell’humour. Le cronache raccontano di un grave episodio di cui è stata vittima in questi giorni presso una struttura sanitaria pubblica del capoluogo siciliano. Cosa le è capitato, di preciso, pastora? “Mi sono recata a trovare, presso il reparto di traumatologia e ortopedia dell’Ospedale ‘Cervello’, un’anziana signora della mia comunità. E’ un mio dovere pastorale, prima ancora un suo diritto di cittadina ricevere assistenza spirituale. Ero in anticipo rispetto all’orario delle visite e un’infermiera mi ha gentilmente bloccato, chiedendomi di attendere. Ho esitato un momento e poi, visto che alcune altre persone sono entrate in reparto, sono entrata anche io senza ulteriori problemi. Il giorno dopo sono tornata insieme a due altre sorelle di chiesa. Siamo entrate in tre mezz’ora prima dell’orario di visita. Quando ci hanno chiesto di uscire le due hanno immediatamente chiesto scusa e sono uscite, ma che io, in quanto pastora, potevo rimanere. L’infermiera era accompagnata dal primario, dottor Claudio Castellani, che non ha voluto sentire ragioni: nonostante gli abbia mostrato il tesserino che certifica che io sono un ministro di culto, documento riconosciuto dallo Stato italiano nei termini dell’Intesa con le nostre chiese, mi ha buttato fuori. Peraltro, in reparto e in particolare nella stanza della persona che mi aspettava non c’era nessuna situazione che potesse far dire che era meglio non entrare immediatamente”.

Ma esiste una normativa che le garantisce il diritto di visita di una fedele fuori orario?
“Sì, certo. E’ la normativa garantita dall’Intesa tramite la legge 449 dell’84 che non vale solo per i preti in clergyman, ma anche per chi come me è una giovane donna con la gonna un po’ sopra le ginocchia”.
E cosa l’ha ferita in questo episodio?
“Innanzitutto, sul piano più immediato delle relazioni umane, l’assoluta mancanza di ascolto da parte del primario. In secondo luogo, la palese violazione del diritto della sorella ricoverata e della sua libertà di religione. Come se soltanto i cattolici romani avessero diritto alla visita del loro parroco... Inoltre sono stata amaramente colpita nella mia coscienza di cittadina di uno Stato laico che non riesce a garantire parità di diritti. Sia chiaro: sarei stata altrettanto turbata se ad essere bloccato fosse stato un rabbino ebreo o un imam islamico, e mi chiedo come funzioni con i pastori pentecostali. E’ una questione di genere, di abito talare, qual è il problema?”
Se poi si considera che tutto questo avviene in una regione in cui un governo di centro-destra ha assunto negli organici amministrativi gli assistenti religiosi cattolici, costringendo tutti i contribuenti a pagare un servizio di cui godono solo i pazienti cattolici, c’è davvero da rimanere esterrefatti. Dopo la sua protesta sull’edizione palermitana di un quotidiano nazionale è mutata qualcosa?
“Corrado Augias ha ripreso la lettera sull’edizione nazionale di ‘Repubblica’. Nel frattempo, la Tavola Valdese si è mobilitata per chiedere chiarimenti e per denunciare questo episodio. Non è una cosa che tocca me personalmente, ma piuttosto un preoccupante segnale di quella che nel migliore dei casi possiamo chiamare imperdonabile superficialità, se non violazione di diritti di base.
La cosa che più mi rattrista è sentire che attorno a questo episodio si sta formando, a fianco della giusta attenzione e volontà di chiarire i fatti ed evitare che si ripetano simili situazioni, anche una leggera bruma di spettacolarizzazione da reality show. Non denuncio questo episodio per fare audience, ma perchè è uno dei tanti sintomi di qualcosa di molto grave che riguarda il nostro modo di vivere qui in Italia, il nostro senso civico e di cittadinanza, in particolare su tutto ciò che ha a che fare con la libertà di religione nel paese”.

UNA PASTORA


“Repubblica - Palermo”
24.12. 08

La donna ‘pastora’ che celebra alla Noce

Perché una ragazza ‘normale’ decide di diventare pastora? L’esordio dell’intervista con Elisabetta Ribet viene disturbato dalla voce del suo collega catanese Francesco che sta preparando il caffé nella cucina dove avviene l’incontro: “Dovresti chiedere ad una ragazza ‘normale’…”. Sorridiamo divertiti e la guida spirituale della chiesa valdese-metodista della Noce prova a rispondere, non senza imbarazzo: “Intanto c’è da considerare che la scelta iniziale è stata per la teologia: volevo indagare l’ambito umanistico, più precisamente storico-sociale, e la teologia per me è anche studio di come l’uomo vive il rapporto con il Trascendente. In particolare - quando ho lasciato il liceo e dovevo optare per una facoltà universitaria era l’anno della Pantera - mi avvertivo fortemente motivata a capire come mai l’Occidente abbia potuto creare tanti disastri planetari nel nome di Gesù Cristo. Poi, quando ho accettato la proposta di essere ‘pastorizzata’ ” (sorride nuovamente divertita) “avrà certamente pesato l’ambiente di provenienza: nella mia famiglia c’è stato da secoli un pastore almeno ogni due generazioni”.

Ma perché pastora a Palermo una piemontese che ha completato gli studi a Parigi? “Sembrerà strano, ma a Parigi ho trovato un ambiente internazionale vivace sul piano culturale come Palermo lo è sul piano delle presenze sociali. Là conoscevo teologi polinesiani, africani, asiatici che sfidavano le mie conoscenze dottrinarie: qui ho conosciuto immigrati, sbarcati clandestinamente, che vengono da quelle stesse terre in cerca di pane e dignità. Poche settimane fa, colloquiando con alcuni ragazzi a cui il nostro centro di accoglienza ha prestato i primi soccorsi, sono stata spiazzata dalla risposta di uno di loro alla domanda se nel suo lungo viaggio dall’Africa centrale, attraverso il deserto e poi il canale di Sicilia, fosse stato sostenuto da un brano biblico: ‘Sì, il salmo dove si legge che, anche se il padre e la madre dovessero dimenticarsi del figlio, Dio non si dimenticherebbe di lui’. Ho sperimentato come Dio può ammaestrare i teologi attraverso le vie più impensate”. A Palermo un forestiero trova qualcosa di particolarmente bello o di particolarmente brutto? “Direi entrambe le sorprese. Intanto il calore con cui la città - o, per lo meno, quel pezzo di città che costituisce la mia piccola chiesa protestante - sa accogliere. E non soltanto i bianchi, istruiti, che come me vengono a svolgere un ruolo di responsabilità sociale, ma anche i neri, che non sanno una parola di italiano e che hanno bisogno di tutto per sopravvivere. Ho vissuto in altre zone d’Italia, per esempio in Val d’Aosta, e ho potuto misurare la differenza abissale a favore di Palermo. Di negativo, invece, ho trovato una certa acquiescenza ad un sistema relazionale di tipo mafioso che mi sembra venga accettato quasi come inevitabile: troppo pochi i cittadini con la schiena dritta, troppi i ‘clienti’. Da cinque anni ad oggi mi pare che, addirittura, la città su questo fronte si stia addormentando”. Le prometto che non farò ricorso a formule volutamente ad effetto, ma erronee, come ‘donna- prete’ o ’sacerdotessa’ : per i protestanti il ‘pastore’ non appartiene ad un ‘ordine’ speciale di cristiani né gli viene impresso un carattere ‘ontologico’ indelebile, ma è un laico che - per un periodo più o meno lungo della sua vita - è chiamato dalla comunità a svolgere un servizio di predicazione e di assistenza spirituale. In cambio della mia sobrietà espressiva, però, le chiedo qualche indiscrezione privata. Per molti cattolici è bene mantenere obbligatorio per i preti la castità celibataria perché - si dice - la gente si scandalizzerebbe se sapesse che il parroco è sposato o, peggio ancora, convivente: come vedono i fedeli di questa chiesa, qui a Palermo, il fatto che la pastora viva con un ragazzo senza essergli unita da un vincolo matrimoniale? “Non so in altre chiese siciliane che cosa sarebbe successo. Qui ho trovato una grande discrezione: non ho ricevuto domande riguardanti la mia sfera privata né io ho fatto niente per sbandierare il mio legame sentimentale con una persona di origine africana che, tra l’altro, non appartiene alla mia chiesa e lavora in tutt’altro ambito. Quanti, poi, vengono ad apprendere più o meno casualmente del mio legame - e magari poi ci invitano a cena o ad una festa in quanto coppia - non sembrano dare alcun peso a questo elemento. Che io sia single o in coppia li tocca quanto a me può importare che il dentista a cui mi rivolgo sia single o in coppia. L’essenziale è che sia un dentista professionalmente valido”.
Che Elisabetta sappia fare la pastora con sobria efficacia lo testimonia l’affetto con cui donne e uomini, adulti e giovani, la circondano e la sostengono. Chi ha curiosità lo potrebbe verificare partecipando una domenica al culto che lei presiede alle undici nella sala di via Noce. Una liturgia in cui la pastora Ribet trova quasi sempre parole stimolanti di commento alla Bibbia, per nulla soporifere. E una liturgia vivacizzata dalla presenza di fedeli non certo freddi, ingessati: in misura ormai preponderante immigrati da tutto il mondo che suonano e cantano e ballano e battono ritmicamente le mani come si usa nei loro Paesi di provenienza. Prima di lasciarci le chiedo un’opinione sul rapporto con i cattolici, ma ecco che il volto le diventa più serio: “A Palermo, ma non solo, il dialogo ecumenico a livello di istituzioni è bloccato da anni. Per grazia di Dio, qui come altrove, ci sono però persone meravigliose, anche cattoliche, che non si arrendono ad un cristianesimo provinciale, confessionale. La più grande speranza di un cristianesimo dagli orizzonti vasti come il pianeta sono gli immigrati e i giovani”.

venerdì 19 dicembre 2008

ANDREA COZZO SU “E PER PASSIONE LA FILOSOFIA”


“Centonove” 19.12.08

QUANDO LA FILOSOFIA E’ PASSIONE

Piacevole e interessante questa presentazione della filosofia (”E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze, Di Girolamo, Trapani 2008, pp. 188, euro 16,50) destinata, in primis, ai non-filosofi (e che, dunque, anche nei licei sarà letta con profitto). Chi conosce l’autore, leggendo il libro – e quasi riascoltandone la voce nella mente – lo ritrova tutto: con la sua verve umoristica, la capacità comunicativa, la conoscenza, l’intelletto. Insomma: con il suo animo. I problemi principali della filosofia risultano molto ben presentati e,direi, anche in felice equilibrio tra aspetto teorico e implicazioni pratiche - di vita quotidiana. Personalmente mi sono piaciute molte pagine, sempre chiare e stimolanti: soprattutto quelle della parte terza dedicate a L’oltre della filosofia (e, tra queste, in particolare quelle sulla pratica amorosa). Chiarissimo poi mi è apparso il quadro esposto nelle parti prima (”Cinque buone ragioni per occuparsi di filosofia, pur senza farne un mestiere”) e seconda (”Di che si occupa chi non si occupa di qualcosa in particolare”).
Ovviamente non mancano i passaggi che mi risultano difficili da condividere. Per andare subito al cuore della divergenza: il capitolo “Della verità” e le implicazioni di questo aspetto che tornano qua e là (per esempio là dove la filosofia viene presentata come un dialogo finalizzato “a capire come stanno le cose”, laddove io avrei detto “a capire come stare -bene- tra e con le cose”). Con spirito di dialogo, vorrei chiedere: ferma restando la validità logica del principio di non-contraddizione, perché sostenere non solo che esso ammette la tolleranza, ma pure che “solo esso la rende possibile” e che, “se veramente venisse meno la forza della ragione, non resterebbe altra risorsa (almeno per le questioni essenziali) che le ragioni della forza”? Non c’è ancora la forza dell’amore? Quali sono gli Stati che esercitano la violenza perché si fondano “sulla sfiducia nella possibilità di pervenire ad asserzioni intrinsecamente vere”? A me sembra, piuttosto, che la violenza - degli Stati, come dei terrorismi di ogni genere- si fondi sulla pretesa opposta: cioè di essere pervenuti ad “asserzioni intrinsecamente vere”.

Nello stesso paragrafo da cui ho tratto le citazioni – e nel precedente - non riesco a far quadrare alcune affermazioni. Per esempio, Cavadi sostiene che il principio di non-contraddizione “asserisce che esiste una verità, ma non dice quale sia” (e qui condivido) e che (interpreto) sulla base di esso ” l’uomo possa attingere -sia pur parzialmente e reversibilmente - la ‘verità delle cose’ ” (è la tesi che attribuisce giustamente ai realisti, tra i quali, se non ho capito male, egli si colloca). Il mio problema è: se il principio di non- contraddizione dice solo che c’è una verità, senza dire quale essa sia, chi garantisce allora che in un certo momento questa verità la si stia cogliendo? Quello che possiamo dire, eventualmente, è solo una frase come “in questo caso qui, e per adesso, siamo tutti d’accordo”: e mai “questa è la verità“. Insomma, se proprio vogliamo ricorrere a questo termine così problematico termine, ciò che possiamo dire è: “questo è, in questo caso e per il momento, quello che noi crediamo -o siamo convinti - che sia la verità)”. Da questo punto di vista l’obiezione ad Aristotele, che Cavadi riporta, non ha bisogno neanche di essere formulata: è lui stesso, il grande pensatore greco, ad affermare giustamente che il tale di cui egli parla “si guarda bene” dal dirigersi in un pozzo o in un precipizio perché è “convinto che il cadervi dentro non sia affatto cosa ugualmente buona e non buona” e – conclude - “è evidente che tutti sono convinti che le cose stiano in un solo ed unico modo”. Per me, parlare di “convinzione, parere, accordo o disaccordo” e simili - piuttosto che di “verità” e di “ciò che è” - aiuta a dialogare e a restare umili senza per questo rinunciare a “stare nella realtà“. E’ la posizione attribuita a Protagora, nel “Teeteto”, e mi piace molto, anche perché mi pare pienamente razionale. Tale quindi da poter essere accettabile anche da Cavadi…

Andrea Cozzo

giovedì 18 dicembre 2008

LA MESSA NELLE SCUOLE


“Repubblica - Palermo”
18.12.08

LA MESSA NELLE SCUOLE NON FA BENE AI CATTOLICI

Tra i paradossi del periodo natalizio si registra la moltiplicazione - in clima di ciaramelle e presepi - di motivi di litigi fra fidanzati, coniugi, colleghi di lavoro. Ogni spunto può risultare deflagrante: la scelta del locale in cui aspettare la mezzanotte o dei suoceri con cui consumare il cenone della vigilia o dei giorni di ferie…Le scuole elementari (soprattutto nel Meridione) non fanno eccezione: e, per colmo dei colmi, il casus belli è la santa messa. Dove sta, con precisione, la questione?
Se - come avviene nel resto del mondo civile - si trattasse di darsi appuntamento in una chiesa cattolica per pregare insieme, in una delle tante giornate di vacanza previste dal 24 dicembre al 7 gennaio, non ci sarebbe che da rallegrarsi: che cosa di più bello, per chi convive quasi tutto l’anno in uno stesso ambiente di ricerca intellettuale, di condividere fra credenti la stessa gioia per la memoria della nascita del Salvatore? Purtroppo, però, si ha il fondato sospetto che gli alunni non avvertano questa esigenza spirituale: si teme che - nonostante i catechismi in preparazione della prima comunione e della cresima, nonostante le montagne di ore di lezioni di religione cattolica, nonostante gli sceneggiati televisivi su tutti i santi del calendario - preferiscano trascorrere il tempo libero in palestra o tra i videogiochi. Da qui l’idea geniale (a quanto pare sinora condivisa dalla maggior parte dei dirigenti scolastici, dei docenti e dei genitori): organizzare la celebrazione eucaristica in orari scolastici, al posto delle lezioni curriculari, conferendole la veste di un’attività parascolastica semi-obbligatoria.

Le intenzioni dei consigli di istituto che deliberano in questo senso sono fuori discussione: nella crisi dei ‘valori’ generalizzata ricorrere alla vecchia funzione della religione come antidoto al degrado dei costumi e al disorientamento etico. Ma, se prescindiamo dalla analisi delle intenzioni, non si possono chiudere gli occhi sugli effetti discutibili di tali decisioni e sulle obiezioni consistenti da queste sollevate.
Un primo ordine di obiezioni viene da chi è convinto che la scuola statale debba essere rigorosamente aconfessionale: proprio perchè vuole essere la casa di tutti, non può essere - anzi neppure apparire - appannaggio di una parte politica o filosofica o religiosa. Se si tratta di studiare il cattolicesimo (eventualmente anche con qualche visita di istruzione in una chiesa), la scuola è perfettamente nei suoi diritti, anzi nei suoi doveri. Specialmente se non dimentica di studiare anche il cristianesimo protestante, l’islamismo o l’ebraismo (eventualmente anche con qualche visita di istruzione in un tempio protestante, in una moschea o in una sinagoga): proprio come lo studio dell’arte può implicare la visita ad un museo o lo studio della botanica la gita in un parco naturalistico. Tutt’altra cosa, invece, convocare gli alunni in una chiesa per un momento non di informazione culturale, ma di coinvolgimento esistenziale: esattamente come sarebbe scorretto convocarli non per un dibattito con un imam o con un rabbino o con uno sciamano, ma per coinvolgerli in una celebrazione islamica, ebraica o sciamanica. Né vale osservare che un genitore, in quanto ateo o fedele di altre confessioni religiose, può autorizzare il figlio ad assentarsi in quelle ore: la scuola non ha certo il compito di proporre iniziative che dividono, quando addirittura non emarginano psicologicamente.
D’altronde questo uso strumentale della religione cristiana si presta alle obiezioni anche di parecchi credenti: essi pensano, infatti, che il vangelo abbia senso come proposta libera e liberante; che utilizzarlo per tener buoni i bambini sia un modo sottile ma deleterio di banalizzarlo; e che, per giunta, sia controproducente perché queste celebrazioni ‘ufficiali’ (e quasi imposte) vengono vissute in un clima di disattenzione, di superficialità e di goliardia. Diciamolo pure: di disprezzo della spiritualità religiosa. Si è già constatato da decenni che i gioielli della cultura cristiana (dalla Divina Commedia a I promessi sposi) sono stati maciullati dal tritacarne del sistema scolastico: si ama così poco il momento del convito eucaristico da volerlo sfigurare agli occhi dei giovani, riducendolo a ingrediente del gran polpettone delle offerte formative parascolastiche in cui si amalgamano momenti impegnativi di educazione alla legalità con momenti molto meno significativi (dalle interviste a giocatori di foot-ball alle chiacchierate con attrici di sceneggiati televisivi)?

La filosofia come cura secondo Moreno Montanari


“Giornale di metafisica”, XXX (2008), pp. 389 - 390.

MORENO MONTANARI, La filosofia come cura. Percorsi di autenticità, Unicopli, Milano 2008, pp. 129, euro 12,00

Anche se scritto da uno dei più noti ed attivi consulenti filosofici italiani, questo testo - breve ed intenso - non riguarda propriamente la consulenza filosofica: ne costituisce, se mai, un possibile, prezioso strumento. Infatti esso riprende alcuni temi che Montanari propone alla meditazione filosofica di quanti frequentano i suoi seminari o chiedono degli incontri privati: dalla responsabilità delle proprie azioni all’atteggiamento verso la propria temporalità, dallo smarrimento nichilistico al confronto con la morte…La varietà dei temi non nasconde, però, il filo conduttore (nietzsceano) del libro: “diventare ciò che si è” (p. 116). Che significa in concreto? Inspirandosi ad Hadot e a Foucault (e, più in radice, ad Heidegger), l’autore risponde: “Prendersi cura della propria autenticità, scegliendo ‘con coscienza e coraggio’ (Camus) di dare vita ad un’esistenza che, tra le molte possibili, gli si palesa come quella che gli è più propria” (ivi). Il vocabolo ‘cura’ può indurre alla supposizione che si voglia spacciare la filosofia per una possibile terapia all’interno del paradigma generale della “medicalizzazione della vita” (p. 9): per questo Montanari precisa, a più riprese e con formule equivalenti, che “questo libro propone di indicare nella cura, e non nella terapia, lo specifico della filosofia” (p. 10). Infatti “la cura filosofica (…) non pretende di curare nessuno ma intende piuttosto aver cura di creare le condizioni affinché gli individui assumano in proprio la responsabilità della cura della propria vita” (p. 11).

All’interno di questa prospettiva complessiva il libro propone, attingendo all’esperienza personale dell’autore ed anche alla sua nutritissima biblioteca, indicazioni su cui riflettere per mettere alla prova il proprio modo di vedere il mondo ed, eventualmente, per mutare il proprio modo di essere nel mondo. Tra le tante mi piace evidenziarne almeno due. La prima è una obiezione alla celebre tesi di Epicuro sull’impossibilità di incontrare la morte (perché sino a quando ci siamo noi, essa non c’è e, quando sopravviene, non ci siamo più noi): “Se la morte avvenisse una sola volta ” - osserva Montanari citando Rinpoche - “non avremmo modo di conoscerla. Ma, per nostra fortuna, la vita è una continua danza di nascita e morte, la danza del cambiamento. Quando ascolto il rumore di un torrente di montagna, le onde che si frangono sulla spiaggia o il battito del mio cuore, sto ascoltando il suono dell’impermanenza. Tutti questi mutamenti, queste piccole morti, sono la nostra viva connessione con la morte” (p. 115). La seconda indicazione viene suggerita a partire da Panikkar (nella riformulazione di Elvira Mastrovincenzo): la cura di sé non va intesa in direzione di riflusso intimistico, privatistico, perché “l’uomo non solo dimora sulla terra, ma è terra, non solo abita nella polis, ma è polis”, “terra e polis siamo noi” (p. 100). Per riecheggiare Hadot, la cura di sé non è ancora rivoluzione politica, ma ne costituisce il presupposto radicale imprescindibile.

Augusto Cavadi

martedì 16 dicembre 2008

Ancora sulla scuola, in Italia, oggi


“Centonove”
5 . 12. 08

A PROPOSITO DI RIFORME

A Castelvolturno, in provincia di Caserta, sono stati convocati dall’assessorato regionale all’istruzione della Campania gli “Stati generali della scuola nel Meridione”. Dal 7 al 9 novembre amministratori, esperti, insegnanti e studenti si sono avvicendati per tre giorni, conclusi dal concerto di Miriam Makeba destinato a restare il suo canto del cigno. Partecipare dall’inizio alla fine è stato un po’ stancante, ma la fatica non è stata sprecata. Nell’impossibilità di un racconto completo, mi accontento di alcuni flash su ciò che ho ascoltato e su ciò che le cose ascoltate hanno suggerito alla riflessione di alcuni dei presenti.

a) Un primo dato: l’assenza delle istituzioni siciliane invitate. Le regioni del Mezzogiorno erano rappresentate ai massimi livelli (Bassolino per la Campania, Vendola per la Puglia, il vice-presidente della regione Calabria e l’assessore regionale all’istruzione della Basilicata), ma dal governo regionale isolano nessun esponente. L’assessore ospite, Corrado Gabriele, mi ha personalmente assicurato di aver rivolto l’invito anche ai nostri Lombardo ed Antinoro: se, come non ho ragioni di dubitare, l’informazione è corretta, forse gli interessati hanno preferito non dare ossigeno all’iniziativa di un collega di Rifondazione comunista o, più semplicemente, non affrontare platee in rivolta contro un governo nazionale di centro-destra.

b) Se per caso è stata quest’ultima la motivazione dell’assenza, i fatti hanno mostrato che non mancava di fondamento. Nonostante il clima molto vivo e cordiale e produttivo che si è respirato nei tre giorni, la maggioranza dei partecipanti hanno dovuto assistere - sia pur per pochi minuti - ad un momento davvero sgradevole: quando ha preso la parola il coordinatore regionale campano della Cdl, esordendo con una apologia (per la verità abbastanza fantasiosa, avvocatesca) della riforma Gelmini, alcuni insegnanti sono esplosi in urla di protesta. Nonostante gli inviti dal tavolo della presidenza, e dalla stessa platea, di lasciare all’oratore il diritto di parola, questi ha dovuto praticamente strozzare il suo intervento. Un episodio triste che può servire a capire l’amarezza di intere categorie, ma anche a misurare il tasso attuale di civiltà democratica nel Paese.

c) A parte questa parentesi che non ha fatto onore alla cultura politica di ’sinistra’ - rappresentata nella sala in misura nettamente maggioritaria - gli interventi sono stati per molti altri aspetti interessanti. Soprattutto dal versante delle denuncie. Come l’insegnante dell’Istituto comprensivo di Afragola che, dopo aver raccontato le mille iniziative scolastiche ed extra-scolastiche in difesa della costituzione italiana, ha notato amaramente il silenzio dei massmedia e la conseguente disinformazione della pubblica opinione: “D’altronde, perché stupirsene? Mica siamo una discarica!”. O come il dirigente scolastico di Pozzuoli che ha testimoniato il paradosso di poliziotti che telefonano offrendosi per far sgombrare locali scolastici occupati, ma - se chiamati in caso di spacciatori che gravitano intorno agli alunni - dichiarano di non avere personale sufficiente.

d) Anche se in proporzioni meno pronunciate, non sono mancate le proposte in positivo. Una delle più qualificanti, che potrebbe servire da asse portante sia per chi contesta sia per chi ha ricevuto il mandato elettorale di governare, mi è sembrato l’invito a non valutare le possibili riforme sulla base delle conseguenze socio-economiche, per esempio delle conseguenze occupazionali. Sciorinare le statistiche dei precari che per i prossimi anni non vedranno rinnovati i loro contratti, sia pur temporanei, e che vedranno allontanarsi ancor di più il momento del loro inserimento in ruolo, significa - paradossalmente - confermare una delle accuse dell’attuale maggioranza governativa: che la scuola è stata considerata sinora una sorta di ammortizzatore sociale, un espediente per togliere inoccupati dai marciapiedi. L’accusa, per la verità, non è infondata: adattando, nella parte conclusiva, la celebre battuta di un film di Woody Allen, si potrebbe arrivare ad affermare che in Italia - per decenni - chi sapeva fare una cosa, la faceva; chi non sapeva fare nulla di preciso, faceva l’insegnante; chi non sapeva neppure insegnare, faceva il ministro della pubblica istruzione. E’ venuto il momento di mutare punto di vista: di assumere il criterio pedagogico. Il ritorno al maestro ‘unico’ (o - come è stato acutamente sostenuto da Raffaele Iosa -il maestro ’solo’, ‘isolato’: ogni maestro, come ogni alunno, è già da sempre ‘unico’) va contestato prima di tutto ed essenzialmente perché appesantisce, in misura insopportabile, il rapporto educativo sia dal punto di vista dell’insegnante (che deve tornare ad essere ‘tuttologo’) sia dal punto di vista dei bambini (che non possono optare fra tre o più figure di riferimento e, se per caso non si trovano in sintonia con un insegnante, non hanno alternative per ben cinque anni). Così come le classi ‘ponte’ vanno contestate in base non ad astratti principi umanitari (di per sé soggetti ad estenuanti dibattiti filosofici) ma a elementari constatazioni di fatto: spesso i figli degli immigrati sono più motivati allo studio rispetto ai figli degli autoctoni (in certi quartieri di Palermo le classi ‘ponte’ dovrebbero apprestarsi, se mai, per i bambini di famiglie italiane…) e, in ogni caso, l’integrazione si realizza attraverso gli scambi informali tra coetanei che scherzano, litigano, si corteggiano, più che grazie alle lezioni dei docenti in cattedra.
Sulla tre giorni va adesso aggiunto che, purtroppo, gli interventi autocritici da parte degli insegnanti sono stati sparuti, pressoché nulli. Questa omissione può indurre nell’opinione pubblica la falsa convinzione che le agitazioni di questi giorni siano, fondamentalmente, reattive; se non addirittura reazionarie. E, invece, ragioni per pensare e realizzare riforme vere, radicali, anche se scomode per i docenti, ce ne sarebbero. Molti di loro sostengono che la categoria dovrebbe riappropriarsi della dignità professionale evaporata: ma come potrebbe avvenire qualcosa del genere se restasse in vigore il patto tacito - sinora inossidabile - con uno Stato che assume facilmente, paga poco e, in cambio, si accontenta di quello che ciascun docente sa fare, trattandolo praticamente da inamovibile?
Dalla Repubblica ad oggi, infatti, l’ingresso nella scuola da parte di maestri e professori non ha conosciuto nessun serio filtro: chi non ce l’ha fatta a superare un concorso regolare ha avuto a disposizione una miriade di leggi e leggine sanatorie. Pur di reclutare - per esigenze oggettive o anche solo in nome di politiche occupazionali - nuovi insegnanti, ci si è accontentato di requisiti insufficienti. Quale fosse e quale sia, nello stesso periodo, il grado di clientelismo nei meccanismi di cooptazione negli atenei universitari è superfluo evocarlo. Come se ciò non bastasse, una volta inseriti in ruolo i docenti possono decidere se studiare, aggiornarsi, approfondire, dedicarsi insomma a tempo pieno oppure dedicarsi ad altro (per esempio un secondo lavoro remunerato più impegnativo): tanto, dal punto di vista della carriera (del riconoscimento sociale ed economico), non cambia nulla. In più di trent’anni di esperienze nelle scuole ho visto di tutto: classi in rivolta per colleghi che non volevano o non potevano lavorare (una di loro era stata operata al cervello per un tumore, era letteralmente intrattabile) e presidi che si dichiaravano impotenti ad intervenire. E soluzioni “all’italiana”: i genitori cercavano raccomandazioni prestigiose per evitare che i propri figli finissero, come i figli di nessuno, nei corsi ‘maledetti’. Anche al di là dei casi-limite (che sono meno infrequenti di ciò che si suppone all’esterno), resta un sistema burocratico che appiattisce le professionalità e premia solo l’attivismo manageriale di chi, invece di qualificarsi per fare bene il proprio lavoro di insegnante, si improvvisa organizzatore di gite scolastiche o di corsi pomeridiani di bridge o di altre offerte formative in sé altrettanto valide (non ho nulla contro le gite o il bridge, tranne quando si configurano o come alternative alla formazione curriculare o come integrative ma tali da schiacciare l’alunno sotto una specie di accanimento didattico). Se si prescinde da questi casi di iperattivismo (che non di rado comportano una certa docilità ai voleri del dirigente), il profilo lavorativo dell’insegnante è forse l’unico nel panorama professionale in cui si va in pensione nella stessa fascia a cui si apparteneva quando si è stati immessi in servizio. Chi vuole progredire può solo…cambiare mestiere! Può fare il dirigente scolastico o l’ispettore tecnico, ma non l’insegnante. Le conseguenze di questo sistema (ipocritamente egualitario) sono raramente misurate. Gli alunni migliori, magari inclinati a diventare insegnanti, tentano altre vie perché non se la sentono di scegliere una professione in cui non c’è nessun incentivo a perfezionarsi. In sistemi scolastici di altri Paesi (come la Francia) il professore può chiedere di essere esaminato dopo un certo periodo di insegnamento e, se ammesso alla fascia superiore, gode di una riduzione del monte ore di lezioni frontali, di un incremento notevole dello stipendio mensile e, soprattutto, può svolgere attività didattiche più impegnative (come, ad esempio, il tutoraggio degli insegnanti più giovani in periodo di prova). In un regime democratico la valutazione dei docenti potrebbe essere affidata non solo a commissari ministeriali, ma anche a ‘pagelle’ stilate sia da colleghi (in ogni scuola esiste già, sia pur con funzioni evanescenti, un comitato di valutazione i cui membri sono eletti dagli insegnanti stessi) sia da alunni (preferibilmente ex-alunni dopo 12 mesi dal termine degli studi).
L’idea di una differenziazione all’interno della categoria docente (del tutto ovvia fra operai in una fabbrica o fra medici in un ospedale) non è inedita. Il ministro Berlinguer, membro di un governo di centro-sinistra, provò a varare un “concorsone” a tale scopo: ma con modalità ridicole e con la pronta, incomprensibile, complicità dei sindacati confederali. Invece di valutare sulla base di quizzoni di cultura generale (a cui rispondere con una crocetta più o meno casuale) e di attestati di corsi di aggiornamento (seguiti spesso senza nessun interesse autentico) , perché non chiedere agli ex-alunni (protetti, se lo volessero, dall’anonimato) se i loro professori arrivavano in orario, erano preparati nella loro disciplina, sapevano insegnare e appassionare, erano equilibrati nei giudizi, solleciti nel riconsegnare i compiti scritti e così via? Perché non introdurre meccanismi democratici ad integrazione di meccanismi ispettivi al posto dell’attuale notte in cui tutte le vacche sono nere? In cui gli artisti della didattica sono equiparati agli artigiani e, persino, agli scansafatica, agli ignoranti e ai nevrotici? E’ strano, ha notato qualcuno durante la tre giorni campana: gli italiani ritengono che i loro figli siano la cosa più preziosa e li affidano ad una categoria che disprezzano. O, se non la disprezzano, comunque la trattano con preoccupazione incommensurabilmente inferiore rispetto ai piloti di un aereo o agli autisti di un bus pubblico: come se la guida maldestra di un mezzo di trasporto potesse provocare disastri, mentre errori e difetti nella guida di intere generazioni non potessero provocare danni altrettanto, se non ancor più, disastrosi.

Augusto Cavadi

domenica 14 dicembre 2008

MANUALE ANTIBULLISMO PER OPERATORI SOCIALI


“Repubblica - Palermo”
14. 12. 08

P. BLANDANO - C. M. GENTILE
Con-vivere la legalità
EGA
Pagine 254
Euro 14

Pia Blandano e Maurizio Gentile, molto noti per l’impegno psicopedagogico per una cultura della legalità democratica, hanno curato questa raccolta di contributi (Con-vivere la legalità) elaborati da colleghi palermitani a vario titolo attivi nel territorio per tentare di accompagnare i minori, proprio come recita il sottotitolo, “dalla violenza alla prosocialità“. Gli studi, basati su esperienze concrete, si configurano come una sorta di “manuale utile per genitori, formatori e per chiunque sia impegnato nella sperimentazione di nuove tecniche operative” in aree socioculturali, come il Meridione italiano, dove fenomeni diffusi in tutto il mondo - come il bullismo e varie manifestazioni di aggressività giovanile - rischiano di cronicizzarsi in mentalità e organizzazioni di tipo criminale. I recenti successi investigativi e giudiziari a spese di “Cosa nostra” sarebbero presto vanificati se non fossero consolidati da un impegno crescente di chiunque può incidere nel modo di intendere e di gestire la vita quotidiana della gente, soprattutto delle nuove generazioni.

sabato 6 dicembre 2008

L’OMELIA DI DOMENICA 21 DICEMBRE


“Adista” 6.12.2008

CONCEPITO PER ESSERE SACRAMENTO

Luca 1, 26 . 38

La lettera del racconto è arcinota, soprattutto negli ambienti cattolici: una “vergine” (il vocabolo greco equivale, perfettamente, a ‘ragazza’) che non “conosce uomo” (ossia non ha avuto rapporti sessuali completi con un maschio) riceve l’annunzio strabiliante che diventerà madre di un bimbo grazie alla “potenza dell’Altissimo”. Sulla base del testo, tutti noi siamo stati messi sin da bambini davanti al bivio: credere (e dunque accettare il prodigio di una partenogenesi) o non credere (e dunque ritenere che Gesù di Nazareth, “in tutto uguale a noi fuorché nel peccato”, sia stato concepito da Maria attraverso le dinamiche fisiologiche ordinarie, dal momento che queste non implicano di per sè nessuna peccaminosità).

Ma viste dal punto di vista del narratore - l’anonimo redattore del vangelo di scuola lucana - le cose stanno proprio così? Davvero la sua intenzione era di scegliere l’integrità di un imene femminile (”prima, durante e dopo il parto” specificherà con esattezza clinica la dogmatica magisteriale) quale criterio di distinzione fra credenti fedeli e miscredenti infedeli? La risposta è impressionantemente affermativa sia negli ambienti ecclesiali a corto di studi biblici sia, per il medesimo difetto di approfondimento, negli ambienti più aggressivamente ‘laici’. Ma gli esegeti, protestanti e cattolici, più aggiornati e meno diplomatici concordano nell’insegnare che “la finalità principale non è quella di descrivere dei fatti, ma di presentare un’interpretazione”; che “l’apice e il centro logico del nostro racconto sta nella frase: ’sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo’ “; che “l’affermazione del concepimento per opera dello Spirito (…) non vuol rappresentare una diretta affermazione di fede: non è autonoma, ma possiede piuttosto la duplice funzione di sottolineare e spiegare la connotazione di Figlio di Dio” (Gerhard Lohfink). Dunque - come conclude l’illustre biblista in un prezioso volumetto rintracciabile gratuitamente in internet (http://xoomer.alice.it/robecres/Gerhard%20Lohfink) - il genere letterario del racconto consente solo di ricavare una confessione di fede in Gesù Messia: “tace su altre eventuali circostanze e sarebbe andar contro l’intenzione del testo se volessimo ricostruire da esso un evento storico”.
Liberata da false alternative, la nostra libertà davanti al messaggio riacquista tutta la sua serietà: vogliamo accettare che il Cristo entri nella nostra storia, personale e sociale, come Sacramento efficace di una potenza e di una bontà divine che solitamente ci restano celate? E, poiché Egli è una cosa sola con la causa di Dio, vogliamo entrare nel solco da lui avviato e prestare intelligenza, cuore e braccia affinché l’impossibile della sincerità, dell’equità, della tenera compassione per chi è stato privato di qualcosa di necessario…diventi possibile? Vogliamo accogliere l’invito ai “bambini” di Gianni Rodari a “fare le cose difficili: parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco”; anzi, a tentare le impossibili: “cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi”? Se rispondiamo di sì, possiamo ritenerci credenti. E se siamo donne, possiamo volgere lo sguardo al nostro grembo fecondato - o fecondabile - attraverso un amplesso passionale senza nessun complesso di inferiorità rispetto alla madre del Nazareno. Invece, se non fossimo ancora pronti a dire il nostro ‘amen’ a questa proposta utopica (non: ad esserne praticamente all’altezza, perché essa sarà sempre un po’ oltre la nostra coerenza) - anche se dovessimo ritenere che davvero gli angeli si trasferiscono da una parte all’altra dell’universo e una ragazza è stata ingravidata in Palestina duemila anni fa senza essere neppure sfiorata dal fidanzato - faremmo meglio lo stesso a non dirci cristiani.

venerdì 5 dicembre 2008

Il benvenuto dei palermitani ai turisti…


“Repubblica - Palermo”
5.12.08

IL TURISMO DEGLI SLOGAN E QUELLO DELL’ARRETRATEZZA

“I turisti vengono pieni di curiosità. Facciamoli tornare pieni di entusiasmo”: questi - e simili - slogan sono stati opportunamente diffusi in questi giorni dall’Assessorato regionale per il turismo, la comunicazione e i trasporti. La promozione mediante manifesti e inserzioni sui giornali può avere senz’altro una certa efficacia, ma per cambiare una mentalità è necessario che l’opera di convincimento venga accompagnata da gesti concreti. Sia da parte delle istituzioni che da parte dei privati cittadini.
Episodi ormai da decenni all’ordine del giorno risultano dunque - proprio perché in contrasto con questa campagna pubblicitaria - ancor più fastidiosi, irritanti. In alcuni casi si tratta di difetto elementare di buon senso. Come quando una famiglia di piemontesi in visita a Palermo mi ha chiesto come ovviare alla difficoltà di trovare al capolinea del 731 i biglietti per recarsi da Vergine Maria al centro della città. Ho staccato tre biglietti dal mio blocchetto e glieli ho prestati volentieri. La sera, però, mi hanno raccontato che un controllore ha obiettato che quei tre biglietti non potevano essere adoperati senza il resto del blocchetto e li ha invitati a scendere dal bus per procurarsi - erano ormai arrivati in zone meno periferiche - dei biglietti ‘regolari’!

Ancor più incredibile il racconto di Loredana, una bella ragazza calabrese che da alcuni anni si è trasferita a Palermo come insegnante in una scuola elementare statale. Una comitiva di suoi concittadini decide di organizzare una gita a Palermo e chiede l’accompagnamento di una guida. L’Azienda provinciale del turismo, interpellata, dichiara che per quel giorno tutte le guide turistiche sono già prenotate (quali perversi meccanismi corporativi limitano l’accesso a questa professione così cruciale per l’economia isolana?). Allora Loredana decide di dedicare la giornata ad ospitare i compaesani e accetta di salire nel loro pullman per illustrare - sia pur sommariamente - vie e monumenti. Ma il giro dura poco perché, non appena l’allegra comitiva scende in via Matteo Bonello per ammirare la cattedrale, due solerti vigili urbani si avvicinano e appioppano alla troppo solerte maestrina una multa di mille euro. Invano i compaesani - tra cui un dirigente scolastico e un vigile urbano - attestano e giurano che si tratta di un’amica prestatasi gratuitamente in sostituzione di guide patentate indisponibili. Nulla da fare: bisogna dare una lezione a chi esercita abusivamente il ruolo di Cicerone!
Ma se questi sono episodi che comunque si appellano ad una normativa vigente, tanti altri si consumano - al contrario - in palese disprezzo di qualsiasi norma. Diversi partecipanti ad un convegno nazionale di sindacalisti edili a Terrasini si sono lamentati con me perché, man mano che arrivavano all’aeroporto Falcone-Borsellino, si servivano di taxi per i pochi chilometri da Punta Raisi a “Città del mare”, ma nessuno degli autisti inseriva il tassametro e, poi, all’arrivo, ognuno di loro ’sparava’ una richiesta differente. Se qualche cliente chiedeva gli estremi del taxista e della sua vettura, gli veniva immediatamente proposto uno sconto. Ho telefonato al 117 e un addetto, per la verità molto gentilmente, mi ha spiegato che bisogna fare di volta in volta una denuncia circostanziata ad una stazione locale della guardia di finanza perché, mentre da Palermo a Punta Raisi le tariffe sono chiare, per altri tragitti vige una sorta di mercato delle vacche. Ma è credibile che visitatori impegnati per due o tre giorni in un convegno decidano di investire delle ore per stendere denuncie e recarsi fisicamente a cercare posti di polizia? Non l’ho fatto neppure io che a Palermo ci vivo stabilmente quando l’altro ieri ho utilizzato un taxi dall’aeroporto a via Notarbartolo (dove un mio amico è sceso) per poi proseguire verso l’Albergheria: nonostante i patti chiari iniziali, il signore alla guida dell’auto ha inserito il tassametro subito dopo la prima sosta. Alla mia stupita protesta, mi ha spiegato che con quaranta euro si paga la corsa sino a Corso Vittorio Emanuele e che, invece, avevo chiesto di andare duecento metri oltre. Solo quando ho chiesto di essere scaricato o subito o comunque prima degli ultimi duecento metri, il buon uomo si è convinto a rispettare la legge e il buon senso. “Gentilezza, simpatia, accoglienza” sono certamente “i migliori investimenti per il futuro”: ma come farlo capire senza seri controlli a chi non conosce neppure onestà, trasparenza e senso civico?

Augusto Cavadi

Ci vediamo giovedì 11/12 a Trento?


Comune di Trento - Biblioteca Comunale
Università degli Studi di Trento
Corso di laurea in Filosofia
Laboratorio di pratica filosofica
Phronesis (Associazione italiana per la consulenza filosofica)

Invito all’incontro pubblico con il filosofo
A U G U S T O   C A V A D I
autore del volume
“In verità ci disse altro.
Oltre i fondamentalismi cristiani”
(Falzea, Reggio Calabria 2008).

Biblioteca Comunale Sala degli Affreschi ­ Via Roma,55 - Trento
Giovedì 11 dicembre 2008 ­ ore 15:00
Introdurranno
Marcello Farina - Maria Luisa Martini

mercoledì 3 dicembre 2008

Prediche laiche: questa volta sono in buona compagnia!


“Repubblica - Palermo”
30.11.08

LE PREDICHE DEI LAICI SENZA PULPITO

Augusto Cavadi

Avete mai ascoltato una omelia domenicale predicata da Fausto Bertinotti, da Giancarlo Caselli o da Gianni Vattimo? In una chiesa è improbabile. Ma fuori, da oggi, è possibile. Infatti è stato appena pubblicato Fuoritempio (Di Girolamo, Trapani 2008, pp. 208, euro 15) , una raccolta di “omelie laiche” che commentano i testi della liturgia cattolica del ciclo B (le pagine bibliche, cioè, che per un anno intero saranno lette in tutte le chiese del mondo a partire da domenica 30 novembre).
La chiave di lettura di queste prediche molto singolari è efficacemente formulata da Valerio Gigante e Luca Kocci, i due giornalisti curatori del volume: “Nella navata in penombra, passi in punta di piedi. Cercano Cose nascoste ai dotti e ai sapienti ma vuoto è il Sepolcro del sacro. E’ là fuori, oltre il sagrato, un venticello leggero soffia sulla vita e le dà la parola. Parole di donne, parola di uomo. Parola di Dio. Commenti al Vangelo di chi si è ’svestito’: senza paramenti, dottrina e gerarchie, ma non per questo ’senza Dio’ “. L’iniziativa ha qualcosa di rivoluzionario: in una fase storica in cui i professionisti del sacro accettano di buon grado di occupare gli spazi pubblici dove sempre più flebile si fa la voce dei laici, qui - al contrario - viene restituito il diritto di parola sul cristianesimo a uomini e donne, ritenuti dalla gerarchia ecclesiastica “non addetti” perché o eretici o profani.

Fra i vari interventi meritano una sottolineatura i non pochi contributi femminili, firmati non solo da teologhe (come Adriana Zarri, Lidia Maggi, Maria Caterina Jacobelli) ma anche da storiche (come Anna Carfora e Adriana Valerio), geografe (come Giuliana Martirani), giornaliste (come Gabriella Caramore), operatrici sociali (come Rita Giaretta) e politiche (come Giancarla Codrignani). Ad esempio una di loro, Antonietta Potente, commenta così il versetto del vangelo secondo Marco “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”: “Da questo testo non nasce una comunità gerarchica di discepoli, ma piuttosto la passione condivisa di alcuni compagni. Coloro che narrano, narrano chi era il loro amico, come l’avevano incontrato e come si erano sintetizzati con lui. Noi lo abbiamo enfatizzato al punto da farlo diventare un testo istituzionale. E’ invece profondamente quotidiano ed umano. Era normale che Gesù facesse gruppo con altri compagni; era normale che questi compagni fossero semplicemente pescatori. Era normale perché il lavoro del pescatore è un lavoro di ricerca, di attesa, di profonda stanchezza. Il desiderio di incontro, di ritornare, di fare casa, certamente era intenso e molto grande in queste persone. Nella narrazione di Marco non troviamo descritta l’organizzazione di un gruppo, ma semplicemente la nascita di legami, di sensibilità, di passioni intorno ad un sogno comune. Non siamo davanti a un traguardo, ma ad una partenza. E’ bello perché è un testo popolare, potremmo dire proletario, mistico e politico allo stesso tempo, dove nella narrazione si mescola l’affetto e la scoperta della dignità del proprio lavoro, della propria condizione sociale, delle proprie rivendicazioni quotidiane che ricercano incessantemente la vita: è un testo che i discepoli raccontano per descrivere e spiegare la loro piccola e grande storia di liberazione e perché altri e altre si riscoprano in essa”.
Insomma, dopo tanto dibattito pubblico sulla laicità, finalmente un libro che - invece di teorizzarvi sopra - ne dà una esemplificazione concreta: non uno spazio vuoto in cui ognuno evita di auto-rappresentarsi per quello che è, bensì un crocevia dove si incontrano le identità più diverse. Con la libertà di dirsi ateo o indifferente, anzi addirittura di raccontare la fatica della propria ricerca e il conforto di qualche spiraglio di senso.

RIQUADRO
Le “omelie laiche” qui pubblicate sono, originariamente, apparse nel corso di vari anni su “Adista”, “l’agenzia di stampa laica che da più di 40 anni diffonde informazione religiosa a tutto campo e senza reticenze”, inspirandosi alla laicità concepita, con il teologo Cuminetti, quale “assunzione di aporie e contraddizioni, sofferenza e rabbia, speranza e sogno”. La redazione di “Adista” è a Roma, dove vengono pubblicate sia l’edizione cartacea (distribuita su abbonamento) che l’edizione telematica (www.adista.it); ma il fondatore è il siciliano Giovanni Avena, tra i più noti protagonisti della stagione post-conciliare del cattolicesimo italiano. Proprio in questi giorni è in atto un cambio al timone dell’agenzia di stampa: dopo sette anni, Eletta Cucuzza lascia la direzione e le subentra Angelo Bertani, già direttore del quindicinale della Fuci “Ricerca”; poi responsabile della redazione romana di “Avvenire” e condirettore della rivista del Meic “Coscienza”; quindi fondatore di “Segno Sette” (un settimanale agile e vivace, che si diffonde ben oltre i confini dell’Azione cattolica); infine dal 1992 al 1995 caporedattore del prestigioso mensile “Jesus” e dal 1996 caporedattore e vicedirettore di “Famiglia cristiana”.

sabato 29 novembre 2008

L’OMELIA DI DOMENICA 14 DICEMBRE


“Adista” 29.11.2008

QUALE TESTIMONIANZA
Giovanni 1, 6 - 8. 19 -28

Come notano gli esegeti, questi due brani del primo capitolo del vangelo secondo Giovanni sono “martellati” dal vocabolo ‘testimonianza’. Ci sono dei periodi storici in cui - per fortuna ma più ancora per sfortuna - prediche roboanti e comizi infuocati fanno effetto. In altri periodi, invece, la trasmissione ex cathedra (ed ex tribuna) non funziona altrettanto efficacemente. Sono fasi della storia in cui la gente sembra, o è davvero, impermeabile alle proclamazioni di fede solenni e agli slogan di partito gridati. Sono i momenti in cui dalla trasmissione ‘unilaterale’ (da un centro ‘emittente’ ad una platea di ‘recettori’ passivi) occorrerebbe passare alla comunicazione ‘biunivoca’ ( che, come ricordava Danilo Dolci nei suoi seminari, proprio in quanto comunicazione non può essere - per definizione - “di massa”). Non solo: in questi frangenti storici la comunicazione più efficace non è la ‘diretta’ ma, secondo la felice espressione di Kierkegaard, la ‘indiretta’. Ti parlo, ma tu mi ascolti più volentieri se - anziché rivolgermi a te verbalmente - ti racconto la mia storia. Ti mostro la mia esistenza. Ti testimonio quello in cui credo, e che vorrei comunicarti con amore, attraverso ciò che sono e ciò che faccio.

Anche se alcune chiese cristiane (ma temo che l’osservazione valga anche per alcune comunità ebraiche e islamiche) non mostrano di essersene accorte, stiamo attraversando una fase del genere: nelle questioni vitali, il discorso più convincente si configura più come testimonianza che come argomentazione retorica. I grandi messaggi religiosi si diffondono solo se, e quando, alcuni credenti riescono a comunicare confidenza nel Mistero, gusto della contemplazione, senso della giustizia, sete di libertà, servizio a chi è stato spossessato…mediante il linguaggio della loro esemplarità ordinaria. Per queste ragioni la figura di Giovanni il Battista è oggi di particolare attualità. Di attualità, ma non di moda: perché - come evoca il vocabolo greco che traduciamo con ‘tetsimonianza’: martirio - vivere ciò che si crede vero e giusto ha un suo prezzo. Non è un caso che, quando si sperimenta il costo di vivere come si ritiene corretto, spesso si finisce col preferire l’inverso: ritenere corretto il modo in cui si vive. Giovanni il Battista non è stato né il primo né l’ultimo a pagare con la testa la fedeltà ai suoi princìpi.
Gli esseri umani siamo così strani che riusciamo, però, a guastare tutto ciò che tocchiamo. Così persino il primato della testimonianza operosa sulla predicazione verbale - primato per tanti versi apprezzabile e fruttuoso - cova in seno i suoi terribili rischi. Primo fra tutti il rischio di enfatizzare la coerenza con sé stessi al punto da ritenenere secondario, anzi trascurabile, il grappolo di valori rispetto ai quali ci si sforza di vivere consequenzialmente. Cosa sono gli integralismi violenti, i fondamentalismi aggressivi - di ogni colore e di ogni bandiera (anche a stelle e striscie) - che infestano il panorama politico contemporaneo, se non tragici esempi di ideali incarnati sino alle estreme conseguenze? Dai piloti giapponesi nel corso della seconda guerra mondiale ai giovanissimi militanti islamici odierni, passando per tutta una serie di cristiani che sacrificano cervello e cuore sull’altare della obbedienza alla volontà dei capi che si spacciano per portavoce di Dio stesso, il mondo pullula di persone che rovinano sè stessi e gli altri in nome del ‘martirio’. Per questo, probabilmente, il vangelo insiste su ciò per cui vale la pena farsi testimoni: “la luce”. Ogni testimonianza va misurata sul grado di coerenza di cui è capace il testimone, ma anche - e prima ancora - sulla validità intrinseca di ciò che egli condivide e intende comunicare: sulla luminosità ‘oggettiva’ (o, per lo meno, intersoggettiva) dei valori per cui si spende. I tiepidi sono un peso per la storia dell’umanità, ma molto più dannosi i martiri che non hanno maturato a sufficienza (mediante un’adeguata informazione, una ponderata riflessione , uno schietto confronto con gli altri, una critica attenzione ai segni dei tempi…) la scelta della causa per la quale vivere e, se proprio necessario, morire. Ma mai uccidere.

martedì 25 novembre 2008

Lunedì 1 dicembre a Palermo il mio libro sul cristianesimo


Lunedì 1 dicembre 2008 alle ore 18.15
Salone del Centro studi “Bonelli”

(presso la Chiesa valdese di via Spezio,
all’angolo con la via Emerico Amari,
alle spalle del teatro Politeama)

incontro pubblico sul tema

Ci si può ancora dire cristiani?

a partire dal volume di Augusto Cavadi

In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani

(Falzea, Reggio Calabria 2008, euro 15)

Il dibattito sarà introdotto e moderato da Franco Micela.
Interventi previsti:

Francesca Piazza (filosofa)
Nino Panzarella (teologo cattolico)
Elisabetta Ribet (teologa valdese)

lunedì 24 novembre 2008

Le agitazioni dell’Onda sono politiche?


“Centonove”
21.11.08
SCUOLA, SE LA PROTESTA E’ POLITICA

Lo si sente ripetere in televisione, alla radio, sui giornali e anche nei cortei di protesta: il movimento studentesco di queste settimane “non è politico”. E lo si afferma con tono rassicurante, irenico, soddisfatto. Che cosa vogliano dire la casalinga per la prima volta per strada a manifestare o il sindacalista ‘moderato’, che hanno votato centro-destra, lo capiamo benissimo: non siamo in piazza strumentalmente per far cadere questo governo. Non siamo pregiudizialmente e programmaticamente contro Berlusconi e i suoi ministri: vogliamo esprimere un dissenso circoscritto, limitatamente a questi provvedimenti di Tremonti che usa Gelmini come controfigura, giacché - come recitava uno dei cartelli partoriti dalla creatività individuale - “la scuola non ha colori: né di destra né di sinistra”. A questi elettori (”Può darsi che siamo pentiti…non ci puoi inchiodare alle nostre scelte elettorali” mi sosteneva una collega il cui fratello è un esponente pubblico della Cdl) bisogna spiegare, con rispetto ma con chiarezza, che il loro - eventuale - disappunto è sintomo di ingenuità politica. Non si può votare per un governo di centro-destra e poi, se per caso comincia ad attuare (con una coerenza interna che il centro-sinistra non ha saputo dimostrare) una politica scolastica conservatrice e liberista, stupirsene e lamentarsene. In cinque anni un governo di centro-destra non può trascurare d’intervenire su un settore vitale quale il sistema scolastico ed universitario: proprio come non potrebbe evitarlo un governo di centro-sinistra o di estrema destra o di estrema sinistra. Nel lungo periodo, insomma, chi fa politica con un minimo di incisività deve ripensare le idee forti che strutturano l’organizzazione militare, i rapporti internazionali, l’amministrazione della giustizia, i servizi socio-sanitari…E se fa politica con un minimo di coerenza, le decisioni che si assumono in un settore devono essere armonizzate con le decisioni operanti in tutti gli altri ambiti. Per esempio: se deve rinforzare il protagonismo militare in Afghanistan o in Iraq, deve tagliare le spese da qualche altro capitolo di bilancio (la sanità o l’istruzione); se deve ridurre la tassazione sui grandi patrimoni privati o evitare una seria lotta all’evasione fiscale, deve chiedere ai cittadini un maggiore esborso di denaro o una rinunzia ad alcune prestazioni statali gratuite.

Ma non sono solo elettori di centro-destra (come la casalinga o il sindacalista di cui sopra) a sostenere, con compiacimento, che le agitazioni studentesche attuali “non sono politiche”. Lo sostengono, con non minore compiacimento, anche elettori di centro-sinistra. Ora la questione è presto sintetizzabile in due interrogativi: è vero che questo movimento è ‘apolitico’ ? E, se è vero, c’è da rallegrarsene se si è all’opposizione del governo che si è intestato la riforma Gelmini?
Alla prima domanda non so rispondere. Probabilmente in larga parte è davvero una protesta settoriale, se non addirittura corporativa: molti non sarebbero in piazza se - come insegnanti, come studenti e come genitori - non vedessero minacciati i loro (sacrosanti) interessi. Ma per la parte migliore dei manifestanti (insegnanti, studenti e genitori) non è così: convinti che la politica non è - o non è soltanto né principalmente il salottino televisivo di Vespa - scendono in piazza perché per loro la politica riguarda il diritto allo studio, alla salute, a un lavoro dignitoso, ad una giustizia uguale per tutti, alla libertà di opinione e di critica. Che ci sia una consistente percentuale di manifestanti che vogliono fare politica lo hanno capito benissimo anche le squadracce neo-fasciste di piazza Navona che attaccano i cortei dei giovani disarmati: se non fiutassero la portata ‘politica’ di questi eventi, perché dovrebbero infiltrarsi fra i coetanei e provocare incidenti? Se davvero si trattasse di lamentele settoriali, destinate a restare tali, perché non lasciare ai cittadini ‘apolitici’ gli spazi di protesta?

***
Ma laddove non sono in grado di rispondere alla domanda su quale sia - di fatto - il tasso di politicità di queste agitazioni, sono molto più certo della risposta al secondo interrogativo: che cosa pensare della - più o meno diffusa - assenza di consapevolezza politica dei manifestanti? Veltroni, intervistato da un tg nazionale della RAI, ha assicurato che i partiti di opposizione rispetteranno la natura spontanea ed a-ideologica di queste proteste. A me pare una risposta davvero stupefacente per un politico di professione. Lo so: voleva dire che gli apparati partitici non tenteranno di cavalcare dall’esterno questi moti, di metterci - come usava dire anni fa - il cappello sopra. E ha detto una verità istruttiva. Ma uno dei leader dell’opposizione democratica non può dimenticare di dire l’altra metà della verità: che chi vuole una scuola ed una università migliori delle attuali (e Dio solo sa di quante riforme normative e morali ci sarebbe bisogno!) non può accontentarsi di piccoli lifting, più o meno tattici, che il governo potrà apportare ai propri decreti sotto la pressione contingente della piazza (e dei sondaggi), magari in attesa che la marea si abbassi e la gente si stanchi. Uno statista, un dirigente, deve spiegare ai cittadini - di destra e di sinistra e soprattutto ai qualunquisti - che chi vuole una scuola migliore non può limitarsi a lottare per una scuola migliore: deve iniziare a fare politica. Cioè: a lavorare per un sistema sociale complessivo (una polis, appunto) migliore. E con continuità testarda: non per un giorno ogni trecentosessantacinque. Deve aggregarsi con qualcuno che già lavora in un partito politico, in un sindacato, in un’associazione, in un movimento…O, per lo meno, deve cominciare a leggere il quotidiano e magari qualche libro intelligente. Deve capire che in politica tutto si tiene: scuola, sanità, magistratura, politica estera, finanza. Gli si deve spiegare che in democrazia si possono fare tutte le manifestazioni di piazza che si vogliono, ma queste o hanno valenza ‘politica’ perché sono l’anticamera di un nuovo modo di concepire la società oppure si condannano a non esercitare nessuna seria incidenza storica.

Non stimo Berlusconi né la sua corte, ma ne apprezzo sinceramente la coerenza con cui si sforza di tenere fede agli impegni assunti pubblicamente in campagna elettorale. Ha avuto la franchezza di dire che riteneva una follia l’idea ‘comunista’ che il figlio di un operaio debba avere le stesse possibilità di ascesa sociale del figlio di un professionista: chi ha votato per lui e per la sua coalizione, deve sapere che o cambia schieramento o è più dignitoso che se ne resti a casa. Non si può applaudire uno Stato violento con gli immigrati e lassista con gli speculatori di borsa; esigente quando fissa le tariffe per i ticket sanitari e tollerante verso chi si arricchisce con il lavoro in nero degli operai; pronto a rinnovare i finanziamenti per i contingenti militari in “missioni di pace” dove Bush puntava l’indice e restio a sostenere la cooperazione internazionale… e poi dissentire, di punto in bianco, su una questione determinata, particolare, come il sistema scolastico. Non si può, insomma, eleggere un capo del governo perché mostra i muscoli e si offre a strenuo difensore degli abbienti e, però, pretendere che muti codice genetico e diventi attento ai bisogni della gente quando si occupa di istruzione. Sarebbe come chiedergli di trasformarsi prodigiosamente in una sorta di Dottor Jeckil e di Mr. Hide. Vero è che Berlusconi è stato reso quasi onnipotente da un consenso elettorale plebiscitario (che continua ad avere proprio in Sicilia una straordinaria riserva di voti), ma non ci si può attendere un miracolo al giorno. Il 30 ottobre ne ha già fatto uno, riuscendo a rimettere a fianco Pd, Italia dei valori, sinistra extra-parlamentare, cittadini apartitici di vario orientamento e persino alcuni elettori ed eletti di centro-destra (trasformando, per dirla col mio amico Alberto Biuso, l’intera Italia in “un’aula scolastica invece che il solito passivo studio di Mediaset”). Avrà diritto anche lui a qualche giorno di riposo? Il disastro è che - del tutto illusoriamente - pensano di averne diritto gli altri, i suoi avversari.
Augusto Cavadi

sabato 22 novembre 2008

L’OMELIA DI DOMENICA 7 DICEMBRE


“Adista”
22.11.2008

IL BATTESIMO SECONDO GESU’

Marco 1, 1- 8

La storia è scritta di solito da chi ha vinto o da chi si allinea dalla parte del vincitore. Anche questa pagina lo conferma. A leggerla, infatti, sembra che tutto si incastri a meraviglia e che dopo Giovanni Battista sia arrivato Gesù il Nazareno, come quando nei concerti musicali una band minore riscalda l’atmosfera e prepara l’apparizione della vera star della serata. In realtà le cose non sono scivolate proprio così lisce. Per anni i discepoli del Battista si sono contrapposti ai discepoli del Nazareno e, attraverso vicende complicate di cui ci sfuggono molti passaggi, il secondo gruppo ha finito con il prevalere sul primo: conquistata l’egemonia, infine, ha potuto costruire un racconto irenico in cui, cancellate le tracce della precedente dialettica, il ruolo di Giovanni è sì riconosciuto ma in condizione di subordine rispetto alla figura e all’opera di Gesù.
Questa possibile ricostruzione storica non avrebbe alcuna rilevanza se non ci portasse a capire meglio in cosa consista - almeno secondo Marco - la novità evangelica. Giovanni non era infatti un profeta meno brillante per loquela, né meno rigoroso nei comportamenti, del cugino galileiano.

Secondo la versione di Luca il suo messaggio poteva condensarsi in poche, precise richieste. A chi faceva l’esattore delle tasse, chiedeva di non esigere più del dovuto; ai soldati, di non fare violenza a nessuno; alla gente in generale, di dare a chi non aveva nulla metà dei propri beni. Che cosa si poteva desiderare di più?
Forse le parole conclusive di questa perìcope possono aprire uno spiraglio: Giovanni battezzava “in acqua”, il Messia “in Spirito Santo”. Giovanni chiedeva ai seguaci di mettercela tutta e di coronare l’itinerario di ascesi e di ascesa con il segno del battesimo; Gesù conosceva la fragilità del cuore dell’uomo e chiedeva ai seguaci di affidarsi ad una Forza più che umana. Non di stare quietisticamente ad aspettare il miracolo che cada dal cielo come il frutto maturo da un albero di fico (come avvertirà Agostino in una delle sue formule più felici, il Dio che ci ha creati senza di noi non ci salverà senza di noi); ma di lavorare per liberarci interiormente dalle ingiustizie, e per rendere vivibile il deserto sociale in cui siamo gettati, senza perdere mai di vista la fragilità umana e le sue contraddizioni. Dunque impegnandoci come se tutto dipendesse da noi, ma senza dimenticare che tutto dipende anche da quell’Energia potente ed amorevole che le religioni chiamano Dio. La fede non diventa per questo più comoda, ma certamente meno presuntuosa e meno logorante. Non siamo noi che costruiamo il “regno di Dio”: lo assecondiamo - o al contrario lo ostacoliamo - soltanto. Un biblista rinomato l’ha saputo esprimere con radicale lucidità: non è Gesù che ha portato il regno (dunque tanto meno i cristiani), è il regno di Dio che ha portato Gesù. Nel vangelo secondo il Battista, bisogna saper remare con tutte le proprie forze (e non sappiamo che fine facciano i deboli, gli incerti, gli incoerenti); nel vangelo secondo Gesù bisogna saper offrire le vele della barca al Vento (Soffio, Spirito) divino.
Se è così, vestirsi di pelle d’animale o di cotone, abitare nelle grotte o nelle case, digiunare stabilmente o alimentarsi regolarmente…sono tutte scelte secondarie, strumentali. L’essenziale è altrove: rinunziare ad ogni alterigia antropocentrica ( persino a quella versione particolarmente insidiosa che è l’antropocentrismo religioso e moralistico) e inserire il proprio impegno quotidiano e locale nel più ampio mosaico della storia e del pianeta. Forse dell’eternità e dell’universo. L’ho trovato scritto anche su una t-shirt che ho acquistato qualche mese fa all’aeroporto di Cagliari: “Dio c’è. Ma rilassati: non sei tu”.

Augusto Cavadi

domenica 16 novembre 2008

LIBERTA’ E AMORE SECONDO PINO GIOIA


“Repubblica - Palermo”
16.11.08

GIUSEPPE GIOIA
Libertà e amore
Vita e Pensiero
Pagine 245
20 euro

La storia della filosofia occidentale è stata visitata da un ospite discreto ma inquietante: Gesù di Nazareth. Di solito si fa di tutto per cancellarne le tracce: Giuseppe Gioia, mite e tenace pensatore palermitano, in questo libro (Libertà e amore) dal sottotitolo eloquente (Filosofia ed esperienza cristologica) si impegna in direzione opposta. Prova a schizzare la bozza di una possibile “filosofia cristica”. In particolare egli mostra un tassello del futuro mosaico: nel Figlio di Dio fattosi carne “libertà” e “amore” non sono inversamente proporzionali perché, nella sua vicenda terrena, l’uomo si rivela capace di essere liberamente “desiderio di Dio” e Dio di essere “desiderio dell’uomo”.
Meditando le pagine, scritte con passione pari alla precisione concettuale, il lettore elabora motivi di consenso non scevri da perplessità: il Cristo in questione - il Cristo della dogmatica ecclesiale e dell’esperienza dei mistici - è ancora il Gesù della storia consegnatoci dai vangeli? Ne è almeno un’immagine esplicitata o non piuttosto una caricatura enfatizzata?

giovedì 13 novembre 2008

Su testamento biologico, eutanasia e suicidio assistito


“Centonove”
venerdì 7 novembre 2008

MORIRE COME UN CANE O COME UN CATTOLICO OSSERVANTE?

Il caso di Eluana, la ragazza in coma da 16 anni per la quale il padre ha chiesto - ricevendo il conforto della magistratura - la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, ha riproposto per l’ennesima volta gli interrogativi bioetici riguardanti la fase terminale della vita. Innanzitutto la questione del testamento biologico o, come sarebbe preferibile, delle dichiarazioni anticipate sui trattamenti medici cui si è disposti a sottoporsi in caso di perdita della propria capacità di autodeterminazione (o, per lo meno, di comunicare in maniera inequivoca le proprie decisioni). Infatti Eluana - secondo le dichiarazioni del padre - in una fase dell’esistenza assolutamente lucida e serena, aveva manifestato a voce e per iscritto la volontà di non essere mantenuta in vita puramente biologica qualora non le fosse stato possibile la piena padronanza delle proprie azioni. Ma tale manifestazione di volontà non è avvenuta in forme canoniche, rituali, legalmente strutturate; inoltre, quand’anche tali forme fossero state rispettate, si potrebbe accettare moralmente che un soggetto disponga di sé come se fosse l’unico responsabile del proprio vivere? Si potrebbero privare i genitori, i familiari, i medici, la comunità cristiana (cui, in concreto, Eluana apparteneva) e la società tutta da ogni diritto-dovere di concorrere sinergicamente alle decisioni del singolo individuo? Sappiamo che l’istituto giuridico del testamento offre il fianco - di fatto - a innumerevoli mistificazioni, abusi, falsificazioni, indebite pressioni sul titolare: è ragionevole permettere che simili interferenze possano ripetersi a proposito di documenti dalla cui validità dipendono non solo beni materiali (per quanto ipoteticamente ingenti) ma addirittura il bene incomparabilmente più prezioso dell’unica vita a disposizione di ogni persona umana?

A queste, e ad analoghe, micro-obiezioni si potrebbero contrapporre micro-risposte complanari: per esempio che gli eredi sono molto più litigiosi per difendere una certa interpretazione delle volontà di un defunto quando si tratta della ‘roba’ propria di quanto non lo sarebbero se si trattasse di poche settimane o di pochi mesi della vita altrui. O, più generalmente, che tutte le distorsioni a cui in via di fatto vengono sottoposti i testamenti non hanno mai suggerito l’idea di abolire l’istituto testamentario: è vero che il diritto offre il fianco all’esasperazione legalistica e ai cavilli dei legulei, ma è altrettanto vero che l’assenza di norme provocherebbe uno scenario sociale molto più disastroso.
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Ad una considerazione più profonda, mi pare di poter rilevare che - tranne rare eccezioni - il tema del testamento biologico viene considerato l’anticamera della legislazione pro-eutanasia: ed è proprio questo nesso logico che spiega sia le resistenze verso il testamento biologico da parte di quanti condannano l’eutanasia sia l’accettazione entusiastica dello stesso da quanti sono favorevoli all’eutanasia.
Su questo argomento gli interrogativi si profilano più impegnativi ed inquietanti e, per affrontarli con serietà, occorrerebbe sgombrare il terreno dai fraintendimenti più colossali. Un primo equivoco è sostenere che l’eutanasia sia una opzione fra la vita e la morte: è evidente, da ogni legislazione sinora emanata in Paesi civili, che la regolarizzazione dell’eutanasia riguarda esclusivamente quei casi in cui l’alternativa non è fra vivere e morire ma fra morire in preda a dolori fisici ed angosce psichiche e morire in maniera dignitosa e per quanto umanamente possibile serena. Un secondo equivoco è ritenere che la fede religiosa, in particolare biblica, implichi necessariamente il rifiuto di ogni ipotesi eutanasica e che l’ateismo, o l’agnosticismo teologico, siano gli unici presupposti teoretici possibili di un’approvazione etica dell’eutanasia. Infatti, come insegnano molti illustri teologi anche cristiani contemporanei, credere che la vita sia un dono di Dio non implica credere che vada coltivata anche quando la malattia la devasta e la sfigura: se offro un fiore non pretendo che l’altro lo tenga nel vaso anche quando sia quasi del tutto marcito né se offro una torta, e l’altro ne ha gustato con gratitudine i sette ottavi, ho motivo di attendermi che consumi anche l’ultima fetta pur se andata a male. Credere che esista un Dio personale che liberamente si rapporta a persone libere (dunque un Dio che non si identifichi stoicamente col fato o con il destino o con la macchina inesorabile delle leggi naturali) può costituire, se mai, una ragione in più e non in meno per ammettere la liceità di subordinare la lunghezza biologica dell’esistenza alla sua qualità ontologica e spirituale. E’ di questi giorni la lettera aperta di una delle più delicate pensatrici cattoliche contemporanee, Roberta De Monticelli, in cui rende pubblica la sua decisione di uscire dalla chiesa cattolica perché ritiene le posizioni della gerarchia ecclesiastica in tema di eutanasia “nichilistiche”, incompatibili con il vangelo di liberazione di Gesù Cristo. Si potrebbe aggiungere che ammettere tranquillamente per un cagnolino o per un asinello, affetti da tumori dolorosi, la possibilità di accorciare la tortura e negare la medesima possibilità, nelle medesime condizioni, ad un essere umano non è solo indice di nichilismo generale: è anche segno di un anti-umanesimo misantropico. Per coerenza, non dovrebbe più usarsi la locuzione “Morire come un cane” ma - restando queste le normative e la prassi effettiva - si dovrebbe piuttosto sostituire con “Morire come un cattolico osservante”. Ma può il Dio della vita, anzi dei viventi, permettere che una creatura tolga la vita ad un’altra creatura? Emerge qui un terzo, davvero madornale, fraintendimento: considerare l’eutanasia un omicidio. Quando un medico nazista avvelena un malato ebreo non sta eseguendo un’eutanasia ma una soppressione ingiustificabile di una vita umana. L’eutanasia, per essere tale e non la sua tragica caricatura, esige che il morente chieda esplicitamente di essere aiutato a gestire in maniera quanto meno atroce possibile il proprio decesso. Essa è il caso limite che illumina, retrospettivamente, la necessità morale (oggi nei fatti trascurata o realizzata riduttivamente) di restituire al paziente la centralità nel contratto terapeutico con il medico: a cominciare dal diritto di essere messo in grado, per quanto lo consentano le sue reali potenzialità intellettuali, di esprimere un “consenso informato” alle cure cui sta per essere sottoposto e alle conseguenze, certe o probabili o anche solo possibili, che tali cure possono comportare.
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Ma se l’eutanasia è questo, essa rimanda a sua volta alla questione del suicidio assistito. I concetti hanno una concatenazione logica spietata, evitando la quale le posizioni etiche difficilmente raggiungono una coerenza armonica (è chiaro che qui considero la coerenza mentale fra le proprie idee, non la coerenza molto più problematiche fra le proprie idee e le scelte in situazione: altro parlar di morte, altro morire…). Siamo, mi pare, all’osso: riteniamo davvero che un soggetto umano abbia il diritto di disporre autonomamente della propria vita? E, in caso di risposta affermativa, riteniamo che abbia il diritto di essere aiutata da un medico a spegnersi (anche se si trattasse di una sedicenne in preda a gravi delusioni sentimentali o di un diciottenne schiacciato dal senso di fallimento professionale) solo perché ce lo chiede con tutti i crismi della legalità?
Nessuno, se non per superficialità imperdonabile, può ritenere che ci si trovi qui davanti a ‘problemi’ (in quanto tali risolubili una volta e per tutti) e non davanti a ‘misteri’ (nel senso filosofico, non teologico-confessionale, di Gabriel Marcel che così denominava gli aspetti della natura e della storia che l’uomo può sondare ma senza nessuna presunzione di chiarificarli esaurientemente e definitivamente ed universalmente): non è forse la ‘morte’ l’enigma più enigmatico della nostra vicenda terrena? Ma se di ‘mistero’ si tratta e non di un mero ‘problema’ logico-scientifico, solo una mentalità dogmaticamente intollerante può cercare una ‘risposta’ esclusiva ed escludente e contrastare l’inevitabile pluralismo degli ‘approcci’, anziché salutarlo come fecondo di incessanti approfondimenti. Chi, come me, è favorevole all’eutanasia non può, per onestà intellettuale, rispondere che affermativamente. Sin da ragazzo ho vissuto casi di coetanei e di adulti che, dopo aver invocato inutilmente la morte, se la sono data in maniera davvero lacerante e dirompente: il male minore (dal punto di vista materiale della loro integrità corporea ma anche dal punto di vista della loro dignità morale) sarebbe stato certamente un’assistenza da parte di altri esseri umani rispetto alla disperazione cieca della solitudine. Ciò detto, vanno subito aggiunte almeno quattro considerazioni. La prima è che un aspirante suicida ha diritto di chiedere sostegno solo se dimostra (esattamente come nel caso dell’eutanasia) di disporre - sul momento o in anticipo mediante testamento - della sua vita in maniera consapevole. Un’alterazione dello stato mentale (come nei casi dei due giovani sopra ipotizzati, l’una abbandonata e l’altro inoccupato) costituirebbe a mio avviso una ragione sufficiente per ritenere che quella persona, in quel momento della sua esistenza, non possiede neppure quel minimo di libertà che la possa far considerare compos sui, responsabile di sé. Una seconda considerazione è che - qualora la società abbia fondati motivi per ritenere che il candidato al suicidio non sia nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali - il dovere di aiutarlo a morire si trasforma in dovere di aiutarlo a guarire: solo ristabilitosi un accettabile equilibrio psichico si può profilare un ragionevole diritto al suicidio assistito. Una terza considerazione è che - escluso il caso precedentemente evocato di soggetti irresponsabili - si potrebbe prevedere uno spazio di dialogo fra l’aspirante suicida e qualcuno (la figura professionale specifica sarebbe il filosofo consulente) disposto a confrontarsi razionalmente con lui: non programmaticamente e pregiudizialmente per convincerlo a desistere dall’intento (se si discute filosoficamente, nessuno dei due interlocutori può dare per scontato che arriverà alla conferma delle proprie posizioni iniziali e non alla condivisione delle posizioni dell’altro), ma per creare le condizioni del massimo di consapevolezza concretamente possibile. Una quarta, ed ultima, considerazione è che al diritto di essere assistito nel proprio suicidio non può corrispondere un dovere assoluto da parte di ciascun altro componente della comunità (il mio diritto al cibo o alla salute non implica il dovere legale di ogni salumiere di sfamarmi o di ogni medico di visitarmi gratuitamente) . Lo Stato, nel momento stesso in cui predisponesse norme giuridiche e strutture tecniche per rendere effettivo tale diritto, non potrebbe contemporaneamente esimersi dal prevedere per i suoi cittadini (medici in primis) il diritto all’ obiezione di coscienza.