“Repubblica - Palermo” 1.12.07
La giungla delle tariffe per nascite e matrimoni
Augusto Cavadi
Tra i tanti paradossi della cultura meridionale contemporanea si registra una schizofrenia nei comportamenti ‘religiosi’ del cittadino medio: da una parte diminuisce il numero di quanti si dicono cattolici convinti e praticanti, dall’altra regge il numero di quanti vogliono celebrare in chiesa gli eventi principali dell’esistenza. Così la frequenza statistica di battesimi, matrimoni e funerali in forma liturgica non accenna a diminuire, o per lo meno non nella misura in cui ci si aspetterebbe in base alle posizioni su questioni teologiche dichiarate.
Questo dato sociologico può essere letto da angolazioni diverse, non necessariamente confliggenti. Alcuni storici del cristianesimo, come don Francesco Michele Stabile, hanno sottolineato i rischi di una religiosità tradizionalista e conformista che non viene neppure sfiorata dal travaglio di accettare o meno il messaggio evangelico. Tra i rischi di un “cattolicesimo municipale” - ridotto a mera “religione civile” - don Stabile, parroco a Bagheria, da decenni sottolinea l’imbarazzante puntualità con cui i boss mafiosi partecipano alle manifestazioni religiose: come potrebbero, mancare se devono spacciarsi per uomini d’onore, ligi ai doveri morali e vicini ai sentimenti popolari? Nessuno, d’altronde, chiede loro di confrontarsi - preventivamente - con le esigenze di giustizia e di fraternità, in nome dell’unico vero Padre, che caratterizzano il vangelo di Gesù.
Se, e come, intervenire per modificare questa tendenza della secolarizzazione nel Meridione a succhiare la linfa vitale del cristianesimo lasciando inalterati i gusci vuoti delle abitudini sociali è una questione teologico-pastorale interna alla Chiesa cattolica. Chi osserva dall’esterno non può esimersi dal notare un paradosso nel paradosso, un enigma nell’enigma: la fedeltà della gente ai riti cattolici persiste nonostante la levitazione delle tariffe. Tranne qualche rara eccezione - guardata con scarsa simpatia dai confratelli, talora persino con aperto disappunto - anche in Sicilia la maggioranza dei preti esercita il ministero dietro compenso economico prefissato. La storia è vecchia e, come recita un proverbio popolare, “senza soldi non si canta neppure messa”, ma nell’attuale contingenza acquista caratteri particolarmente inquietanti: infatti, dalle informazioni e dalle lamentele che mi arrivano da più zone dell’isola, anche i preti - come i notai, i medici, gli avvocati, i meccanici, gli idraulici e i panettieri - si sono guardati bene dal tradurre le lire in euro con esattezza matematica. Non solo avviare le pratiche di dichiarazione di nullità del matrimonio, ma anche chiedere l’autorizzazione a sposarsi in una parrocchia diversa dalla propria o la celebrazione di una messa in suffragio di un caro defunto è diventato enormemente più costoso: anche fra le mura ovattate e semioscure delle sacrestie la monetina metallica dell’euro ha finito col sostituire la banconota di mille lire.
Pure questo aspetto della questione si presta a considerazioni da vari punti di vista. Nell’ambito cattolico c’è sempre qualcuno - ciclicamente - che si incarica di esprimere riserve, talora addirittura indignazione: vero è che, come è scritto anche nel Nuovo Testamento, “ogni operaio ha diritto alla sua mercede” e che, come pochissimi sanno, i preti in servizio nelle diocesi alle dirette dipendenze del vescovo non hanno mai formulato un “voto di povertà” (a differenza dei monaci e dei preti che fanno parte di Ordini religiosi, come i Cappuccini o i Gesuiti), ma è anche vero che c’è un problema di sensibilità e di buon gusto. Perché un servitore di Dio dovrebbe adeguarsi le entrate mensili con la prontezza di un parlamentare o di un manager d’industria e non condividere i lentissimi progressi dei dipendenti pubblici e privati? Non si tratta di inseguire il pauperismo, ma di rendere - con un tocco di sobrietà - il proprio ministero presbiterale un po’ più credibile. Era, fra tanti altri, il parere di don Primo Mazzolari che, ne Le pieve dell’argine, riferiva le parole di don Checco a don Stefano: ” Se la gente ci vedesse guadagnare il pane come loro e un po’ più onestamente di loro, la religione si farebbe strada senza molte prediche e molte organizzazioni. Una povertà sana è come il mio vino: porta via la sete e non ubriaca”. Tra i primi atti di Salvatore Pappalardo, nominato arcivescovo di Palermo, ci fu una circolare in cui chiedeva ai parroci di rendere pubblici i bilanci finanziari annuali in vista di una perequazione fra parrocchie di quartieri cittadini ricchi e parrocchie di paesini di montagna poveri. Ma, come ebbe a confidarmi direttamente, “da questo orecchio i miei preti non ci sentono: dopo un anno, di bilanci ne ho ricevuto due o tre”.
Osservata dall’esterno, la questione del tariffario per i servizi liturgici presenta qualche aspetto amaramente umoristico: può capitare anche a voi di ascoltare involontariamente, in attesa del turno in salumeria, una massaia che al cellulare passa all’amica la dritta sulla chiesa “giusta” di Ficarazzi o di Ballarò dove il prete è disposto a pronunziare a messa il nome del nonno defunto senza chiedere soldi (”se vuoi, puoi dare liberamente qualcosa quando passa il cestino delle offerte”). Si presta anche a domande più impegnative: perché la cultura laica non riesce a inventarsi dei modi propri, originali, di solennizzare nascite e morti? Perché - senza polemica contro nessuno, ma in alternativa al ristretto panorama attuale delle offerte di senso - non riesce a forgiarsi un suo linguaggio simbolico? E’ proprio indubbio che i matrimoni civili debbano avere un tono sbrigativo e squallidoccio e che solo in un tempio religioso si possa fruire di colori, di profumi, di canti, di brani poetici e di una riflessione - meditata e garbata - sulla bellezza e sulle trappole della vita di coppia? E’ proprio inevitabile che i funerali civili si svolgano in ambienti tristi e spogli, che in assenza di un prete non ci sia qualcuno - meglio ancora se, coralmente, l’intera cerchia dei parenti e degli amici sinceri - che sappia dare voce al dolore, al rimpianto, alla stima e alla speranza? “C’è bisogno di riti” abbiamo letto tutti quanti ne Il piccolo principe di Saint-Exupery. E’ verissimo. Ma la ritualità, che segna le tappe della nostra vicenda terrena e la tiene aperta - come direbbe Michele Perriera - al mistero che ci circonda e ci attende, si eredita come un soprammobile da salotto o come un giardino vivo da coltivare, rinnovare e ricreare ad ogni generazione?
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