“Centonove” 9.11.07
Augusto Cavadi
UN SICILIANO IN COLOMBIA
I numerosi addetti che hanno controllato, ai quattro scali del viaggio, il mio biglietto aereo da Palermo a Medellin, si sono equamente distribuiti in due sottogruppi: i diffidenti e i divertiti. Come mi ha spiegato, all’arrivo, il collega dell’università da cui ero stato invitato, non capita tutti i giorni che un palermitano attraversi l’oceano alla volta della Colombia per un convegno di didattica della filosofia. Pare che la ragione più frequentemente abbia un diverso carattere - per così dire - speculativo.
Confesso che - istruito solo da alcune fonti più o meno ufficiali pescate da internet - ero sbarcato con l’atteggiamento sottilmente paternalistico di chi pensa che, per quanto male si possa stare in Sicilia, comunque si è sempre europei che visitano una parte del mondo in via di sviluppo. Ma presto mi sono dovuto ricredere. Certo, né a Medellin né a Bogotà, si può notare quell’ostentazione di benessere che nelle strade principali di Palermo o di Trapani nasconde molto bene la povertà - non solo materiale - di vaste zone sia del centro storico che delle periferie di recente urbanizzazione. Insomma, fosse questione di vetrine o di jeans firmati o di fuoristrada (?!) nel cuore del traffico cittadino, il siciliano in Colombia potrebbe benissimo mantenere il più o meno celato senso di superiorità. Non così se si parla con la gente, si partecipa ai seminari di studio, si visitano le biblioteche pubbliche: c’è un fervore di idee, una sete di confronto, come dalle nostre parti - forse un po’ in tutto l’Occidente industrializzato - è sempre più raro registrare.
Tre esempi per tutti. Gli insegnanti - dei vari gradi d’istruzione scolastica - si interrogano con molta serietà sulla dimensione politica della loro attività professionale. Nei momenti conviviali o di relax davanti all’immancabile cerveza si appassionano alle discussioni sugli aumenti salariali, ma non sbadigliano distrattamente quando si tratta di interrogarsi sul rischio di appiattire la vita scolastica sulla mentalità, i desideri e i linguaggi del consumismo sociale dominante: astutamente sostenuti dalla convinzione che c’è, per quanto sotterraneo, un nesso fra sistema capitalistico sfrenato e sottovalutazione della funzione intellettuale.
All’università di Bogotà sono attivi dei corsi specificamente predisposti per alunni sordomuti, con traduzione simultanea delle lezioni nel linguaggio dei segni.
Le biblioteche pubbliche, poi, non hanno nulla della severa, tetra clausura delle nostre, quasi templi da riservare ai fedeli più motivati. Sembrano davvero tese ad autopromuoversi per promuovere cultura nel territorio: spazi luminosi e colorati, pareti di vetro in modo da ridurre al minimo - proprio fisicamente - la separazione fra chi passa per strada e chi è dentro a consultare un libro o un periodico. E, per attrarre l’interesse dei passanti, vistosi gonfaloni impermeabili sfidano venti e piogge per ricordare che “un popolo che non legge si condanna all’oscurità” o che “la lettura può liberarci dallo sconforto verso il genere umano e ricordarci che siamo capaci di realizzare cose magiche”.
Non si può supporre che questa atmosfera effervescente sia dovuta, come nei Paesi scandinavi, al fatto che siano stati definitivamente appagati i bisogni materiali elementari. Da espressioni raccolte in momenti differenti e da persone differenti, ho recepito un senso pacato ma profondo della propria dignità di popolo: con radici, mi pare, che potrebbero benissimo risalire a ben prima dell’invasione coloniale europea. Per questo, a poche ore dalla partenza, una considerazione captata per caso non mi è risuonata - come sarebbe stato all’inizio del viaggio - paradossale. Di fronte ad un intoppo burocratico fastidiosissimo, una signora colombiana - del tutto ignara della mia nazionalità e rivolta polemicamente al funzionario - osservava a voce alta e indispettita: “Se procediamo di questo passo, arriveremo ai livelli dell’Italia”. Scherzi della globalizzazione: ormai le banane si producono in molte repubbliche.
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