Centonove 23.11.07
Augusto Cavadi
C’E’ UN LEGAME TRA FELICITA’ E POLITICA
Qui di seguito una traccia dell’intervento di Augusto Cavadi al seminario di formazione etico-politica organizzato il 1 ottobre 2007 dall’Associazione “Donne per Messina”. Per informazioni sull’Associazione contattare Tina Palmisano (donnepermessina@libero.it oppure 339.7714099).
La domanda - guida, cui cercheremo di rispondere insieme questa sera, è se esista un rapporto fra felicità e politica. Anche qui, come si è tentato di fare introducendo altri interrogativi negli incontri precedenti, occorre intendersi sul significato che diamo a quei segni linguistici convenzionali che sono le nostre parole. Chiediamoci dunque, innanzitutto, cosa intendiamo per ‘felicità‘ sia quelli che pensiamo che sia accessibile su questa terra sia quelli che la concepiamo come inattingibile. Per gli uni e per gli altri è uno stato interiore - in qualche modo corrispondente ad una condizione oggettiva, realistica, ontologica - di gratificazione piena, tale da non poterne auspicare una modifica sostanziale. Dico “in qualche modo corrispondente ad una condizione oggettiva” perché, in genere, non siamo disposti ad accreditare per felicità lo stato psichico di chi sia in preda ad allucinogeni e che, una volta uscito dal delirio, si dovesse scoprire senza amori o senza lavoro o senza salute. E dico “tale da non poterne auspicare una modifica sostanziale” perché, se sperimento la felicità - almeno nel momento in cui la sperimento - sarebbe molto strano che desiderassi un cambiamento radicale (o se, al contrario, non lo temessi come una disgrazia).
Ebbene, posto che le felicità sia questo - o qualcosa di simile - possiamo cominciare a fissare alcuni paletti, almeno provvisori.
Il primo: forse la felicità è attingibile in questa vita, forse un’illusione atroce, ma in ogni caso ogni uomo ha diritto di poterla cercare con tutti gli strumenti immaginabili, tranne quelli che danneggino altri non consensualmente.
Il secondo paletto è consequenziale: la politica non può assicurare la felicità ai cittadini (quando lo promette, prepara infelicità inumane), ma può provocarne l’infelicità (per esempio calpestando i diritti umani elementari). Dunque non ci dobbiamo attendere dai regimi politici la felicità, ma abbiamo il diritto di attenderci che essi non ce la distruggano alla radice: la buona politica può - e deve - assicurare le condizioni perché i cittadini stessi possano, se vogliono, mettersi alla ricerca della felicità.
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Ammettiamo di vivere in un regime democratico che, con tutti i limiti, ci garantisca - come fa la Costituzione della Repubblica italiana sinora vigente - il diritto alla ricerca di una felicità, sia pur parziale e provvisoria. Ebbene, se interroghiamo la tradizione occidentale, che indicazioni possiamo raccogliere?
Ogni tanto il papa, in curiosa sintonia con atei strumentalmente devoti, ricorda che l’Europa ha radici cristiane. Verissimo. Ma altrettanto vero che il cristianesimo, come noi lo abbiamo conosciuto, soprattutto nella versione cattolica, ha a sua volta radici ebraiche e radici greche: l’Europa cristiana è come un fiume in cui sono confluite almeno due filoni precedenti: la sapienza greca (Atene) e la profezia biblica (Gerusalemme ).
Ebbene, quali modelli di felicità ci vengono consegnati da queste due antiche sorgenti di cultura?
Per la saggezza greca, la felicità è - fondamentalmente - astensione dal dolore, ricerca dei piaceri ragionevoli e contemplazione della verità delle cose. “Astensione dal dolore”: il male e il bene sono entrambi costitutivi della natura ed è illusorio, dunque, sperare di vivere solo in una dimensione di positività. Ciò che possiamo fare è perseguire una strategia di riduzione del danno, magari usando la filosofia che - secondo Epicuro - deve guarirci dai mali dell’anima esattamente come la medicina ci può guarire dai mali del corpo. Questa visione non va scambiata per un pessimismo paralizzante e rinunciatario: evitare i mali non esclude la “ricerca dei piaceri ragionevoli”, dunque di piaceri moderati (per la ragione che, se eccessivi, diventano causa di nuovi malanni). La saggezza è dunque saper miscelare dolore e piacere che - Platone lo fa dire a Socrate nel “Fedone” - sono come i due capi della stesso pezzo di corda: non si può afferrarne uno senza, per ciò stesso, portar via anche l’altro.
Tra i piaceri che ci sono accessibili in questo mondo, secondo diversi filosofi greci ce ne è uno talmente intenso da assomigliare alla felicità, al massimo di fioritura che un soggetto umano può sperimentare da mortale: la sapienza, la “contemplazione della verità delle cose”. Quando sappiamo qualcosa di vero (sapère, il “sàpere” dei Latini, cioè l’assaporare con gusto e il far proprio con calma), la nostra beatitudine si avvicina a quella divina. Se poi arriviamo a contemplare le essenze della realtà, la nostra passione (il nostro eros) arriva al culmine dell’appagamento. Il discorso di Diotima sull’amore nel “Simposio” sintetizza questo itinerario esistenziale in maniera anche letterariamente affascinante.
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Se dovessimo scegliere un testo che si abbini, un po’ per somiglianza ed un po’ per contrasto, con il discorso sull’amore platonico, potremmo scegliere il Discorso della Montagna così come viene costruito, nei rispettivi “vangeli”, da Matteo e da Luca. So che può sembrare strano: il passaggio cruciale di quel Discorso evangelico non è forse costituito dalle “beatitudini”? E le “beatitudini” non sono forse l’esaltazione dell’infelicità? La “vulgata” catechetica lo sostiene da non so quanti secoli, ma gli esegeti insegnano esattamente l’opposto: Gesù di Nazareth proclama “beati” (cioè: “felici”) i poveri e gli oppressi non perché avranno il privilegio di restare tali sino alla morte e di essere ricompensati nell’altra vita, ma perché già da subito - e già da qui - comincia il ribaltamento della loro condizione. Che poi questo non sia avvenuto, o stia avvenendo in tempi troppo dilatati e in maniera troppo deludente, è un’altra faccenda (e coinvolge il fallimento storico del cristianesimo o, come titolava più drasticamente un libro di Sergio Quinzio, “La sconfitta di Dio”). Ebbene, perché questo brano evangelico può essere adottato come sintesi emblematica - sul tema della felicità - di tutta la tradizione ebraico-cristiana? Perché esso proclama che il segreto ultimo della felicità non è l’eros che aspira a perfezionarsi moralmente e ad appagre la propria sete di sapere, bensì l’agape: l’amore che cerca il bene dell’altro in quanto altro, senza contare su gratitudini e gratificazioni. Essere felici è possibile nella misura in cui non si insegue la propria felicità, ma ci si impegna nella storia a favore degli infelici - di chi è infelice come noi o più di noi.
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Da queste due lezioni che ci provengono dalla sapienza greca, da Atene, e dalla profezia biblica, da Gerusalemme (rimando, per approfondimenti maggiori, ma accessibili ad un vasto pubblico, il volumetto di Elio Rindone dal titolo “Ma è possibile essere felici? Interpretare il passato senza restarne prigionieri”, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005), penso che derivi per noi che viviamo nel XXI secolo un compito inedito: ipotizzare e sottoporre a sperimentazione una sintesi che - dopo aver destrutturato il ‘buon senso’ cattolico-borghese - inveri la saggezza greca e la testimonianza biblica. Che significa “destrutturare il ‘buon senso’ cattolico-borghese”? Significa dire no all’esaltazione della “carità” (che è negazione di aspetti basilari dell’eros e negazione di aspetti basilari dell’agape) e dire sì alla rivalutazione di questi aspetti positivi, rivoluzionari, sia dell’eros che dell’agape. Più concretamente, significa dire no all’accettazione del dolore (proprio e altrui) come dato indiscutibile e insuperabile e dire sì alla lotta (scientifica, tecnica e sociale) contro ogni forma di sofferenza fisica e psichica (vedi, solo per trarre un esempio dall’agenda politica attuale, le cure palliative e l’accanimento terapeutico); significa dire no all’ascetismo moralistico e dire sì ad una distribuzione più equa del diritto ai piaceri come possibili vie alla gioia (dunque contrastando la tendenza ad una divaricazione sempre più schizofrenica fra l’edonismo spudorato di pochi privilegiati e l’invidia, più o meno rassegnata, delle masse) ; significa dire no all’egoismo individualistico (che, al massimo, si estende al familismo tribale) e dire sì alla solidarietà planetaria e metodica.