Centonove 5.10.07
Augusto Cavadi
PALERMO E SABBIE MOBILI
Un prodotto letterario deve, prima di tutto, farsi leggere con piacere. E il romanzo breve - o il racconto lungo - di Mario Di Caro (”Mezzanotte al teatro Massimo”, Di Girolamo, Trapani 2007, pp. 92, euro 10) l’ho letto con gusto: dopo le prime righe mi ha arpionato e mi ha mollato solo alla fine. Come effetto collaterale (desiderato), il libro mi ha dato da pensare: come danno da pensare i libri che, invece di raccontare la mafia come organizzazione criminale militarizzata (per carità, quando sono scritti bene sono istruttivi pure questi!), raccontano la mafia come sistema di potere diffuso, articolato, radicato nel contesto sociale.
Questi aspetti sono più sfuggenti, più ardui da mettere a fuoco: perché sono divieti taciti, ordini silenziosi, omissioni intenzionali, impercettibili moti del volto…Insieme, solo insieme, costituiscono quella coltre pesante che opprime la quotidianità a Palermo, in Sicilia, in Italia meridionale. Una nebbia vischiosa, appiccicosa, in cui è illusorio separare nettamente carnefici e vittime, colpevoli e innocenti: perché non ci sarebbero tanti padroni e padroncini se non ci fossero tante animucce rassegnate, per viltà o per quieto vivere, a farsi manipolare l’esistenza. Sì, che la città sia malata e si lasci “scivolare come narcotizzata nelle sabbie mobili dei suoi misteri” può essere “l’effetto dei miasmi del tritolo incrostati sull’asfalto delle strade” (p. 60): ma anche la causa. Queste pagine di Di Caro confermano l’idea che ci si forma vivendo dalle nostre parti: la mafia non è un destino irreversibile, ma neppure una macchia d’inchiostro su un tessuto immacolato. E’ nata storicamente e, prima o poi, tramonterà: ma più ‘poi’ che ‘prima’ perché ben piantata in un terreno sodale, impregnato di ignavia e di accidia. E di invidia: “E’ sempre stato così a Palermo, anche cento anni fa: alla fine vince l’invidia perché l’importante non è essere più bravi di tutti, ma impedire agli altri di esserlo” (p. 36).
Una nota preliminare avverte che “fatti e personaggi del racconto sono frutto della fantasia dell’autore”, ma è una nota che non si riesce a prendere sul serio: troppi fatti, come la chiusura per trent’anni del Teatro Massimo, sono (per quanto incredibili) storici e troppi personaggi, come il senatore Santiago, hanno di fantasioso solo il nome e l’esatta posizione istituzionale. Chi ha i capelli anche solo brizzolati, come fa a non riconoscere, nella finzione letteraria, il profilo inconfondibile di quel leader politico democristiano che, prima di cadere vittima di fuoco ‘amico’, si era dimostrato capace di “aspettare e colpire al momento opportuno”, “in silenzio, misurando le parole, sempre attento a non dirne una di troppo, come se avesse voluto risparmiarle per quando ne avrebbe avuto bisogno”? Ed il cui potere, “saldo al vertice del partito, si estendeva dagli ospedali ai teatri, dalle società finanziarie alle municipalizzate: una sorta di impero che controllava attraverso una corte di fedelissimi ramificata in tutti i consigli di amministrazione della città e allevata a suon di favori e raccomandazioni, sorta di cambiali senza scadenza che riscuoteva al momento opportuno. Formava le giunte comunali, minava la stabilità dei governi regionali ogni volta che un alleato gli voltava le spalle, tesseva accordi, nominava direttori d’azienda, dirigeva speculazioni immobiliari ma riusciva sempre a rimanere dietro le quinte” (p. 23)? Magari tipi come questo fossero davvero “frutto della fantasia dell’autore”! Se non si possono individuare con nome, cognome ed indirizzo postale è piuttosto per una ragione opposta: sono troppo ‘veri’, si riproducono per apprendimento imitativo - pressoché identici - in diverse generazioni di politici. Quando ne scompare uno, presto la maggioranza dei siciliani si affretta a riversarne il consenso tesaurizzato nei decenni ad un nuovo erede: quasi come pecore dominate dalla nostalgia di un pastore che le conduca a piacimento, pur di assicurare una certa dose di foraggio. Gli uomini passano, il metodo di governo resta. Lo spiega efficacemente lo stesso “senatore”: “Questa città è fatta così, non ha alcuna voglia di cambiare, checché ne pensino i miei colleghi più giovani e più sfrontati. E sarà così per sempre. Cambia solo lo scenario, come succede in quel teatro che le piace tanto fra un atto e l’altro, ma la storia resta sempre la stessa” (pp. 80 - 81).
Eppure. Eppure, in una città che implode lentamente nelle proprie stesse viscere, un fantasma del Massimo - Turandot - non rinunzia ad evocare quell’imponderabile che “ogni notte nasce e ogni notte muore”: la “speranza” (p. 69). E un altro fantasma, Mefistofele, osa persino declinarla in concreto: “Adesso i giovani vanno solo in palestra, hanno smesso di sognare. Ecco, io invece voglio che la lotta per il teatro coinvolga tutti, operai e intellettuali, giovani e anziani, principesse e giullari. Vorrei farli sognare tutti assieme. Abbiamo l’occasione di cambiare la nostra storia. Non posso continuare a vedere i miei compagni che avvizziscono nell’inerzia” (p. 76). Chi sa? Forse, avendo stancato tutti gli dei del pantheon, solo un diavolo potrà salvarci. Di Caro non sembra prendere posizione. La sequenza finale è esposta alle interpretazioni anche opposte: il caos, “la più squinternata delle rivoluzioni” (p. 91), è la prova scoraggiante che “il mondo è tutto una burla” (e non c’è onesto che non abbia un prezzo) o, piuttosto, la conferma incoraggiante che “nessuna storia” va considerata “immutabile” (p. 92)?
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