“Repubblica - Palermo” 18.7.07
Augusto Cavadi
FILOLOGIA PER LA VITA QUOTIDIANA
L’antropologo studia i propri simili con atteggiamento - almeno intenzionalmente - asettico: senza ira moralistica né zelo apologetico. Sappiamo che cosa succede quando un medico o un avvocato o uno spacciatore di cocaina decide di raccontare, con atteggiamento antropologico, mentalità e comportamenti quotidiani dei suoi colleghi: un pandemonio. Qualcosa del genere provoca un professore universitario quando analizza, con sguardo scientificamente oggettivo, la propria categoria. Se l’ultimo libro di Andrea Cozzo (La tribù degli antichisti. Un’etnografia ad opera di un suo membro, Carocci, Roma 2006) non ha suscitato un vespaio analogo lo si deve - probabilmente - al fatto che gli studiosi di civiltà antiche, in particolare della civiltà greca, sono pochi, sono molto educati e, se proprio devono reagire alle provocazioni di un eretico della loro chiesa, preferiscono metodi discreti dagli effetti di lungo periodo.
Peccato. Perché il libro del docente universitario palermitano non è soltanto intelligentemente provocatorio ma propositivo. Solleva questioni che, almeno per chi vive nella Magna Grecia, sono ineludibili e ricorrenti (basti pensare alla domanda imbarazzante che tutti i ragazzini che si iscrivono al primo anno dei licei classici pongono al docente di turno: a che serve studiare il greco?) e offre risposte che, per quanto opinabili, sono meditate e argomentate. Infatti si preoccupa, preliminarmente, di evocare le risposte ufficiali più diffuse e solo dopo averne saggiato la consistenza tratteggia la propria convinzione. Per restare nell’esempio, Cozzo richiama alcune opinioni sulla cui parzialità raramente si è disposti a discutere (i Greci vanno studiati perché avevano gli stessi interrogativi che abbiamo noi oggi; oppure perché rappresentano un modello superiore di umanesimo; oppure perché conoscerne la lingua ci permette di capire senza vocabolario molte parole dell’italiano di oggi; oppure perché la frequenza con i loro testi ci educa al gusto estetico e all’eleganza nel nostro modo di esprimerci…) e si diverte - con serietà talora tragica - a ribaltarle per vederne l’altro lato, chiedendosi ad esempio, con Salvatore Settis, se i Greci vanno ancora studiati perché ci assomigliano o non piuttosto perché sono diversi, lontani, altri.
Non avrei né lo spazio né la competenza tecnica per entrare nei dettagli del volume, ma non posso esonerarmi da due osservazioni di interesse generale. La prima è che il libro costituisce una felice esemplificazione di ciò che ogni professionista dovrebbe fare qualche volta nella vita: chiedersi che senso abbia il proprio lavoro. Cozzo ricorre ad una citazione illuminante di Nietzsche che riguarda un certo settore di attività ma che ogni lettore può senza difficoltà estendere al proprio ambito: “Esiste un modo per occuparsi di filologia, ed è frequente. Ci si getta sventatamente - o si è gettati - su un qualche argomento: di lì si guarda a destra e a sinistra, si trovano molte cose buone e originali. Ma in un momento di debolezza ci si domanda: ‘Che diavolo mi importa di tutto ciò?’. Frattanto si è invecchiati, ci si è abituati, e si continua su quella strada, come nel matrimonio”.
La seconda osservazione ci tocca, più da vicino, come cittadini di Palermo. Si può fare ricerca storica o cinema, giornalismo o imprenditoria, poesia o politica come se vivessimo a Stoccolma o a Sidney? Che ogni attività, soprattutto se di valenza marcatamente intellettuale, implichi una presa di distanza dal proprio contesto sociale immediato è fisiologico: come potremmo ipotizzare scenari di cambiamento se fossimo immersi nella marea sino ai capelli? Ma una cosa è fare un passo indietro metodologico - per poi ritornare nel proprio ambiente con la testa alleggerita da certe tensioni e arricchita da nuove intuizioni - e tutta un’altra cosa è illudersi, in nome di privilegi fortuiti e quasi sempre immeritati, di poter mettere definitivamente fra parentesi i drammi che si consumano appena fuori dalla nostra campana di vetro opaco. Cozzo lo sa dire nella maniera semplice e convincente di chi vive effettivamente certi sentimenti (e non è un caso che da anni egli abbia attivato dei corsi di Teoria e pratica della nonviolenza nella nostra Facoltà di lettere e filosofia e si dedichi a sperimentare metodi di lotta contro il sistema di potere mafioso ispirati a Gandhi e a Danilo Dolci). Libri come questo - confessa egli a un certo punto - nascono da domande che mi sono posto “mentre mi guardavo intorno e vedevo guerre, povertà, problemi sociali, violenze grandi e piccole e le sofferenze connesse: lontane, nei posti di cui leggevo sui giornali, o vicine, nelle strade adiacenti al parco ormai cementificato in cui si stende la strada che si chiama forse un po’ narcisticamente viale delle Scienze su cui sorge il mio dipartimento. Bastava alzare gli occhi da Omero, dall’apparato critico di Tucidide, dalle figure retoriche della critica letteraria (…), per vedere che là, davanti alla finestra, si attuavano prevaricazioni, si aggiravano mendicanti, si litigava, si giustificavano guerre, si discuteva cercando di prevalere sull’interlocutore, si faceva forza sull’età, sul sapere, sul genere sessuale, sulla gerarchia”. Forse chiunque di noi, pungolato da questo insolito insegnante universitario che gira in jeans e magliette da mercatino rionale anche là dove giacca e cravatta servono come simboli di uno status invidiabile, potrebbe riconoscersi nel suo gesto di autocoscienza critica: “E’ bastato alzare lo sguardo dai libri per rendermi conto che il mondo è più grande di me con i miei libri e che io vivo in quel mondo e non sono innocente rispetto a ciò che avviene in esso”.
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