venerdì 20 luglio 2007

LA SCUOLA ITALIANA: ECCESSIVA BONTA’?


“Repubblica - Palermo” 20.7.07

Augusto Cavadi



MA BOCCIARE PUO’ ESSERE DEMOCRATICO

“Non bastano le bocciature a ridare valore alla maturità“: questo il titolo (e il senso) dell’intervento di Maurizio Muraglia sull’edizione di domenica 15. Forse per mancanza di spazio, questa volta l’autore (che non è solo un’opinionista, ma il coordinatore provinciale di una serissima associazione di docenti progressisti) si ferma alla diagnosi senza accennare, neppure sinteticamente, a quale possa essere la terapia. Ma se nelle lamentele è facile trovare consensi, le divergenze si profilano quando si passa alle proposte concrete di soluzione. Ed è significativo che queste divergenze tagliano, trasversalmente, gli schieramenti ideologici e politici mettendo in evidenza come - su determinate problematiche - la spaccatura fra ‘destra’ e ’sinistra’ sia molto meno rilevante che fra buon senso e miopia culturale. Quando, ad esempio, si cita con toni squalificanti la riforma Gentile del 1923, si dimentica - o si ignora - che il progetto originario (snaturato su molti punti dal filtro del regime fascista) aveva assimilato gli apporti di liberali come Croce e socialisti come Salvemini, che non per caso si dichiararono subito entusiasti. Che dopo più di ottanta anni - e quali anni ! - si dovesse mettere mano al sistema scolastico è evidente; molto meno che si dovesse scardinare, nella normativa e ancor più nella prassi quotidiana, ogni criterio di selezione per meriti. Invece è proprio qui il cuore della questione, la radice di tutti i mali.


Una maestra elementare a me molto cara, poche settimane fa, ha proposto che un alunno (le cui assenze durante l’anno scolastico erano state sproporzionatamente maggiori rispetto alle presenze, con consequenziali risultati disastrosi sul piano didattico) non fosse ammesso alla classe successiva. Le colleghe, in sede di conversazioni preliminari, si erano dichiarate d’accordo ma quando - al momento degli scrutini - la dirigente ha apostrofato con sarcasmo l’insegnante che proponeva la bocciatura (”E’ arrivata la giustiziera della notte!”), le altre si sono immediatamente allineate in buon ordine votando compatte per la promozione.

Qualche giorno dopo, a pranzo con un ragazzo liceale promosso a pieni voti all’ultima classe, è capitato di scambiare due paroline su Kant. Ero curioso di sondare cosa pensasse un adolescente di oggi dell’etica kantiana ma, dopo le prime battute, mi sono reso conto che parlavamo di due autori diversi: il mio giovane interlocutore attribuiva al pensatore tedesco del Settecento le idee di Cartesio, pensatore francese del secolo precedente. Non ho potuto trattenere un’espressione di stupore, ma la risposta mi ha lasciato senza parole: “Sa, Kant l’ho studiato un mese fa, ma come vuole la nostra insegnante: un riassunto del manuale in adozione e via! Tanto il sette in pagella, con questo metodo, lo abbiamo assicurato tutti”.

Muraglia sostiene che all’esame di maturità i commissari esterni non hanno il compito di verificare se un nove in matematica o in greco è veramente un nove, quanto piuttosto di “far emergere lo spessore culturale dello studente”, ossia se “il candidato sia diventato capace di trasformare quel che ha imparato in cultura, in capacità di porre e porsi problemi, in sguardo critico sulla realtà“. Perfetto. Non ci si potrebbe esprimere meglio. Ma a Muraglia sarà capitato, come a me sino a quando la vita non mi ha insegnato a stendere pietosi veli di silenzio, di chiedere in sede di esame di maturità che cosa il candidato pensasse - lui personalmente - della decisione di Antigone di seppellire il cadavere del fratello nonostante il divieto del re e di sentirsi obiettare: “Scusi, professore, ma non mi pare che in programma ci sia il paragrafo in cui si risponde a questa domanda”. A parte il fatto che, ancor più radicalmente, anche il ragazzo più sveglio e più giudizioso non può essere preciso nella sua valutazione del gesto di Antigone se la confonde con Elettra o con Clitemnestra…

Nessun filtro alle elementari, nessun filtro alle secondarie superiori: ma almeno all’università? Che ormai le Facoltà assomiglino ad anonimi esaminifici in cui un 18 non si nega a nessuno, lo ammettono quasi tutti i docenti. Dopo la laurea, ci sarebbe - prima dell’insegnamento - la barriera o di un concorso pubblico o di un corso di specializzazione in S.S.I.S. Per quanto riguarda la Ssis, devo accontentarmi delle confidenze di professori che vi lavorano da anni: quando sarebbe il caso di negare ad un candidato l’abilitazione all’insegnamento, c’è sempre in commissione un collega che lo ha seguito nel percorso universitario (certe volte persino per la tesi finale) e si oppone con tutta la sua autorevolezza alla non-abilitazione. Per quanto riguarda i concorsi pubblici, invece, ho parecchie e tristi esperienze dirette. Una delle ultime volte ho invitato un candidato all’insegnamento nei licei a consegnare, a noi della commissione addetta alla vigilanza durante gli scritti, un manuale da cui aveva iniziato a copiare sottobanco. Con sguardo attonito, l’interessato chiese se anche per la prova del giorno successivo avrebbe incontrato di nuovo me: “Se è questa la previsione, è meglio che torni a casa e mi risparmi i soldi dell’albergo. Ma sappia che lei sta commettendo una grave ingiustizia: mi sta proibendo di consultare il manuale, mentre tutti i miei colleghi che sono presenti nelle altre venti aule di questo istituto stanno copiando tranquillamente col tacito consenso delle commissioni”. Sulle conseguenze che avrei dovuto trarre io (o farlo copiare o darmi per malato il giorno dopo), l’aspirante docente aveva torto (e, infatti, non ebbe da ribattere nulla alla mia semplice domanda se si sarebbe augurato per un suo figliolo un insegnante come lui). Ma sulla fotografia della situazione generale di lassismo permissivo aveva ragione da vendere. La tragedia della scuola italiana - o per lo meno siciliana - comincia proprio da qui. Inflazionare i titoli di studio anziché socializzare le conoscenze non è democrazia, ma demagogia. Perciò è preparare generazioni di sudditi illudendosi di lavorare per la giustizia sociale.

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