“Repubblica - Palermo” 25.7.07
Augusto Cavadi
LA FALSA DIFESA DELL’ORGOGLIO REGIONALE
Prima la fotografia del mafioso coi turisti che sbarcano dalla nave da crociera; poi la dichiarazione del ministro degli Interni sul maschilismo violento dei siciliani. E subito scattano le proteste bipartisan in nome del regionalismo offeso. La Royal Caribbean è costretta a chiedere scusa e a promettere solennemente che nessuno dei suoi collaboratori avrebbe indossato la coppola (neppure per scherzo: la performance è riservata a Cuffaro quando va da Santoro) e lo stesso Amato si precipita a precisare ciò che, dal contesto del suo intervento, qualsiasi ascoltatore di buon senso (se non prevenuto per avversione ideologica) aveva già capito: che a picchiare le donne in famiglia non sono i siciliani di oggi, ma i siciliani (anzi, numerosi siciliani) delle generazioni precedenti.
Sappiamo che far leva sull’orgoglio degli isolani costa poco e rende (dal punto di vista del consenso, anche elettorale) molto. Ma ciò non giustifica le scomposte espressioni di sciovinismo provinciale offerte da alcuni politici (soprattutto, non esclusivamente, di centrodestra).
Circa la seconda accusa , perché non riconoscere che si tratta - sostanzialmente - di una constatazione? Gli italiani del 2007 ci scandalizziamo ad ogni piè sospinto di usi, costumi, riti e simboli di altre civiltà (soprattutto islamiche), dimenticando - o facendo finta di dimenticare - che solo di recente la secolarizzazione ha comportato l’abolizione (e neppure totale e non sappiamo se irreversibile) di analoghi usi e costumi in voga da noi. Angelino Alfano, coordinatore siciliano di Forza Italia, non vedendo in giro nessun maschio che picchia sorelle, mogli e figlie, ha interpellato amici e parenti (”Questi violenti costumi non sono mai esistiti. Non soddisfatto della mia memoria, ho chiesto subito informazioni ai miei genitori, ai loro amici e persino a mia nonna. A nessuno risulta che, in Sicilia, fosse costume abituale picchiare la donna”): forse, con un’idea un po’ meno ristretta di ‘violenza’, la sua mini indagine storico-sociologica avrebbe dato risultati ben diversi. Quando frequentavo il liceo la stampa nazionale segnalò il coraggio di Franca Viola, una ragazza di Alcamo che - per la prima volta nella storia siciliana (1965) - rifiutava il matrimonio riparatore dopo essere stata rapita da uno spasimante a lei sgradito. Quando frequentavo l’università (1969 - 1973) , alcune colleghe venivano a lezione con un velo che le copriva quasi interamente lasciando visibili solo gli occhi e una parte del viso: si trattava di giovani suore cattoliche che, per la prima volta nella storia delle loro Congregazioni, erano state autorizzate a studiare in luoghi pubblici e promiscui. E non si è dovuto attendere la legge n. 442 del 5 agosto 1981 per vedere cancellatala l’attenuante del delitto d’onore (quasi sempre a vantaggio di un marito o di un padre geloso) dal codice penale italiano? Capisco che un ministro della Repubblica dovrebbe saper rinunziare al vezzo professorale, alla Ratzinger, di innamorarsi della battuta tagliente, al punto da non valutarne l’impatto mediatico (ricordate la citazione del papa a Ratisbona?). Amato va corretto tuttavia perché la sua infelice espressione si presta ad essere interpretata come generalizzazione di fenomeni che, per quanto diffusi in una cultura, non possono attribuirsi alla totalità dei soggetti appartenenti a quella cultura (né alla siciliana né - ma questo non l’ho sentito da nessuno - alla pakistana). E anche perché lascia in ombra la tragica verità (ricordata dalle dichiarazioni di alcune donne, come Anna Finocchiaro e Piera Fallucca) che la violenza sulle donne non solo non è un’esclusiva dei siciliani d’altri tempi ma neppure dei paesi di tradizione musulmana: è un malcostume planetario. Solo qualche mese fa le amiche della redazione di “Mezzocielo” hanno dedicato un intero numero alla violenza contro le donne: e non era né una ricognizione storica né un’indagine antropologica su popolazioni di continenti lontani…
Per quanto riguarda, poi, la prima querelle, non c’è molto da aggiungere a quanto altri hanno osservato tempo fa a proposito della polemica sugli sceneggiati televisivi dedicati alla mafia: scandaloso non è raccontare (più o meno bene, con un romanzo o con un film o con una canzone) la mafia, ma che ci sia ancora una mafia da raccontare. Oggi possiamo dire: chi si indigna perché nell’immaginario collettivo internazionale la Sicilia richiama la lupara, che cosa ha fatto e che cosa sta facendo perché questo nesso sfumi nella memoria e si rarefaccia e si riduca a mero luogo comune? Non so se sul pianeta esista una regione governata da un politico che, negli ultimi anni, ha visto inquisire, processare e condannare per reati mafiosi numerosi colleghi di giunta, sodali di partito, amici personali. E che lui stesso sia sotto processo con accuse gravissime oscillanti fra il concorso esterno in associazione mafiosa e il favoreggiamento.
Se la compagnia navale che ha fatto fotografare i turisti accanto ad un burlone travestito da mafioso merita qualche obiezione, è per ragioni opposte a quelle sinora ascoltate: ironizzare sul potere mafioso è sì un modo di togliergli ogni aura di intoccabile sacralità (e di liberare i turisti dalla preoccupazione ingiustificata di diventare bersagli di sparatorie alla Far West) , ma rischia di rafforzare in noi siciliani la convinzione che si tratti, alla fin fine, di una zavorra tollerabile.