Repubblica - Palermo
23.3.07
L’ANTIMAFIA SENZA FRASI FATTE
di Marcello Benfante
Accade che a scuola l’antimafia si traduca meccanicamente o quasi per inerzia in una specie di retorica legalitaria. Talora abbastanza efficace, in fin dei conti. Più spesso stucchevolmente agiografica e impacciata dagli imperativi categorici del “politicamente corretto”. Anche per questo, un libro come “A scuola di antimafia”, che a cura di Augusto Cavadi appare per i tipi dell’editore Di Girolamo, può aiutare (non solo i docenti) a superare certi sterili interventi normativi e omiletici. Si tratta infatti di un volume collettaneo di quasi trecento pagine in cui confluiscono - tra l’altro - i contributi di autorevoli esperti come Umberto Santino, Amelia Crisantino, Giovanni La Fiura e lo stesso Cavadi, il cui merito principale, oltre ad offrire numerosi spunti pedagogici e di riflessione storica, consiste in un lavoro di destrutturazione dei luoghi comuni relativi al fenomeno mafioso.
È sul piano del linguaggio, infatti, che si gioca la partita più importante. Ovvero quella della formazione e dell’informazione, così strettamente connesse l’una all’altra. Solo costruendo un nuovo lessico e una nuova grammatica dell’antimafia sarà possibile affrontare il problema della criminalità organizzata con strumenti interpretativi efficaci, con una maggiore trasparenza comunicativa e con una riconquistata credibilità (oggi in parte compromessa dalla retorica istituzionale, dai sociologismi tautologici, dalla demagogia del politichese, dalla torbida ipocrisia di segmenti di società contigui a Cosa Nostra).Naturalmente, il testo consente una perlustrazione esauriente dell’argomento (e al riguardo i saggi di Santino offrono, per chiarezza e precisione, una sintesi ottimale). Tuttavia è la critica agli stereotipi, alle espressioni consunte, a quelli che
La Fiura definisce i “moduli fuorvianti”, agli equivoci frustri e ipocriti, agli ideologismi striscianti, l’apporto più significativo dell’antologia, nonché la proposta più interessante e operativa per i docenti a cui la pubblicazione esplicitamente si rivolge.Il compito della scuola, infatti, dovrebbe essere in primo luogo quello di ridefinire la questione sfrondandola dai termini mistificanti in cui troppo spesso si ammanta.Oltre a demistificare i topoi ambigui della mafiologia, Amelia Crisantino analizza, per esempio, termini apparentemente anodini della cronaca nera come “recrudescenza” o “emergenza” dai quali emerge un’erronea interpretazione di tipo congiunturale e non continuativo-strutturale del fenomeno mafioso. Questi termini, che ricorrono con insistenza nel giornalismo e nel linguaggio quotidiano, sottintendono infatti “un’idea di mafia come mera fabbrica di omicidi” che diventa inoperosa tra un fatto di sangue e l’altro e che quindi non ha una sua intrinseca e funzionale collocazione nella società.Il discorso si fa più complesso allorché si passa a considerare una serie di banalizzazioni tenacissime radicate in un immaginario collettivo, in un sentire diffuso: che la mafia ignori chi sa farsi i fatti propri; che alle sue origini ci sia un “codice d’onore” poi stravolto da uno sviluppo distorto; che essa sia un fossile subculturale, “un relitto della storia”, un arcaismo o comunque un elemento di persistente arretratezza.Santino, al riguardo, contesta l’opinione dell’antropologo tedesco Henner Hess secondo cui la mafia, piuttosto che un’organizzazione, sia “una mentalità e un modo di essere”, ovvero una sorta di primitivismo, di sottosviluppo culturale. Quest’idea (in fondo consolatoria) ha tradizionalmente trovato ampio spazio nella scuola poiché consente un superficiale giudizio di valore basato su una prospettiva di superamento storico e di dislivello civile tra i mondi separati della mafia e della modernità. Analogamente, Santino rifiuta lo schema interpretativo del “familismo amorale”, formula coniata negli anni ’50 dall’antropologo americano Edward Banfield, che oggi appare inadeguata (ma Cavadi ha un’opinione più sfumata) a spiegare la complessità di un fenomeno in cui interagiscono molteplici fattori.L’insidiosità di queste idee, in cui s’innerva perniciosamente un neosicilianismo difensivistico e una mitopoietica della piovra universale e del Male Assoluto, sta soprattutto in certe parziali e storpiate verità che esse contengono a un livello semplificato e in ultima analisi manipolatorio.Anche Cavadi insiste sui “pregiudizi da sfatare”, istituendo una serie di illuminanti analogie tra la visione del mondo mafiosa e la cultura cattolica e quella borghese.Da questo Rasoio di Occam, che elimina sistematicamente tutta una serie di equivoci e falsi truismi, scaturisce un libro problematico e dinamico che il curatore definisce un work in progress.Già apparso nel 1995 come Quaderno del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, viene opportunamente riproposto in forma aggiornata e integrata per rifare il punto su una questione che è sempre in divenire e che sempre pone nuove sfide.Articolato in cinque sezioni (Materiali di studio, Contributi pedagogici, Esperienze e progetti, La legislazione, Strumenti bibliografici e sussidi didattici) il volume vuole essere soprattutto uno strumento di intervento messo a disposizione degli insegnanti e degli alunni nella consapevolezza che occorra contestualmente impegnarsi su tutte le direzioni temporali. Ossia: “Studiare il passato, analizzare il presente, progettare il futuro”.
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