Centonove 9.2.07
UN MODO MOLTO PERSONALE DI CREDERE
A ottanta anni compiuti, Paul Abela - un ingegnere nato in Egitto, vissuto in Libano e infine naturalizzatosi in Francia – decide di raccontare un po’ della sua vita e, soprattutto, della sua ricerca religiosa. Il frutto è un breve libretto, non particolarmente profondo ma particolarmente sincero, dal titolo eloquente: Credo, ma diversamente (L’Harmattan Italia, Torino 2003). In esso, infatti, l’anziano autore espone il bilancio di ciò che non si sente di accettare della dottrina cattolica ricevuta dall’infanzia e di ciò, che, invece, gli sembra ancora illuminante per sé e per la storia dell’umanità.
Nella parte destruens ci sono quelle formulazioni dogmatiche che, a suo avviso, sono compromesse “dall’influsso della mitologia e della cosmologia antica, ormai prive di significato” (p. 69): dalla verginità biologica della Madonna all’infallibilità del papa, sino a toccare dei punti abitualmente ritenuti essenziali come la personalità divina di Gesù e la Trinità. Di fronte a questi enigmi concettuali, “per far accettare ciò che appariva poco ragionevole, ma importante da credere, si ricorreva all’adagio ‘Credo quia absurdum’ (Credo perché è assurdo o nonostante sia assurdo). A partire da Tertulliano, a cui viene attribuita, con questa regola si faceva accettare qualsiasi cosa, anche le più aberranti: le sette, il razzismo, le guerre, le peggiori mistificazioni” (p. 68). E’ stata una strategia consapevole, intenzionale e maligna o solo frutto dell’ignoranza umana che affligge tutte le persone e le istituzioni, anche – e forse soprattutto – quelli che si ritengono onniscienti? In ogni caso, col suo buon senso del tecnico più incline all’operatività che alla speculazione filosofica, Abela non ha dubbi: “Errare humanum est, perseverare diabolicum “(p. 65). E aggiunge una notazione che trovo estremamente saggia: “In molti casi, per evitare lo scandalo per i deboli, si preferisce non contraddire le formulazioni tradizionali e non ci si preoccupa per lo scandalo che si offre alle persone più consapevoli e critiche, che, nei nostri Paesi, diventano sempre più numerose. L’onestà intellettuale dovrebbe andare di pari passo con la fiducia che ‘la verità vi farà liberi ’ (Gv . 8, 32)” (pp. 68 – 69).
Ma allora, spogliata da mitizzazioni e tabù, cosa resta della fede cristiana? Anche qui la risposta dell’autore è di una semplicità disarmante: “Ho deciso che il Dio che m’interessa non può essere meno buono e meno intelligente di me” (p. 30). Ogni immagine di Dio che ne fa un despota capriccioso, non può essere accettata: “il rifiuto di questo Dio fa onore all’uomo e a Dio” (p. 30). Il Dio annunziato, testimoniato - e in qualche modo reso visibile nel mondo - da Gesù di Nazareth è invece un Dio che ama in maniera tanto paterna quanto materna: “Dio è Amore, ecco il criterio in base al quale vanno riletti la Bibbia, la teologia e i dogmi. Ogni interpretazione che vada in senso opposto è sospetta” (p. 31). Un Dio che ama è, per ciò stesso, inevitabilmente, un Dio “vulnerabile” 8p. 35). Abela cita in proposito delle intuizioni fulminanti, di cui almeno quattro esigono d’essere riprese. La prima è dal romanziere Graham Greene: “Dio è fragile e disarmato, spetta a noi proteggerlo da noi stessi”. La seconda è del teologo Maurice Zundel: “Non è Dio che deve proteggere noi, ma noi che dobbiamo proteggere lui”. La terza di una giovane pensatrice ebrea vittima del nazismo: “Dio non mi aiuta, sono io che devo aiutare lui”. La quarta, infine, della scrittrice Margherite Yourcenar: “Quanti infelici, turbati dall’idea della sua onnipotenza, non accorrerebbero dal fondo della loro miseria, se si chiedesse loro di venire in aiuto alla debolezza di Dio”.
Ma credere, nella prospettiva ebraico-cristiano-islamica, non è essenzialmente un’accettazione di ‘verità’: piuttosto un atteggiamento esistenziale ed un orientamento pratico. Dunque ciò che Abela conserva della fede giovanile è che il Dio di Gesù Cristo – che “sfugge a qualsiasi definizione” – “ci ami al di là di quello che possiamo immaginare; che, per la nostra felicità, ci chieda di rispettarci a vicenda, di essere creativi e solidali, di amarci gli uni e gli altri” (pp. 58 – 59). Non è un caso che al centro della vita liturgica ci sia la celebrazione eucaristica: non “un rito magico che fa precipitare Gesù sulla terra” (così ancora il padre Zundel citato a p. 49), bensì un “gesto di condivisione attorno ad un tavolo” (p. 48). Non è forse la volontà di condividere il pane, i beni materiali e immateriali, che ci trasforma in “provvidenza gli uni per gli altri” (p. 51)?
Il volumetto, che solleva più interrogativi di quanti riesca ad analizzare con la necessaria documentazione, è impreziosito da una Postfazione, acuta come al suo solito, di Giovanni Franzoni,. In essa, tra l’altro, l’ex abate del Monastero benedettino di San Paolo di Roma richiama una sentenza che il Talmud attribuisce a Dio. Gli angeli che Gli chiedevano una punizione per un certo Mikha, un ebreo che consumava sacrifici agli idoli, si sarebbero sentiti rispondere: “Lasciatelo in pace. Il suo pane è offerto ai viaggiatori poveri”. Una risposta che bene illustra la convinzione di Abela (“l’ortoprassi è più importante dell’ortodossia”, p. 95) riformulata da Franzoni come il sogno di una Chiesa che, deposte le pretese dogmatiche, si presenti piuttosto come “una mensa in cui il Dio Amore sostituisce alla sua centralità quella degli affamati di pane e di giustizia, e invita i suoi adoratori, in spirito e verità, a seguirlo nel cammino di servizio reciproco” (p. 111).
Augusto Cavadi
Nessun commento:
Posta un commento