Repubblica – Palermo
4.3.06
Nei rudi Cristi di Rouault la bellezza della sofferenza
Nella formazione di alcuni di noi ha inciso non poco l’incontro intellettuale con un terzetto particolare. Lui, Jacques Maritain, era soprattutto un filosofo; sua moglie, Raissa, e la sorella di questa, Vera, soprattutto letterate e mistiche. Nelle loro opere ricorre spesso il nome di un pittore ‘primitivo’, apparentemente naif, che frequentavano e che, insieme a Chagall, ammiravano sconfinatamente: Georges Rouault. Questi (soprattutto nella fase in cui si è ispirato alle vetrate delle cattedrali gotiche) stava effettuando nelle arti figurative ciò che i Maritain tentavano, con i meriti e le ambiguità del caso, nell’ambito filosofico-teologico: riattualizzare il meglio del Medioevo come antidoto alla decadenza del Moderno. Come antidoto – per riprendere il loro comune amico Leon Bloy – alla “infamia borghese”: ad ogni “mediocrità” benpensante incapace di prendere posizione contro le ingiustizie della società. E, per seguire tale ispirazione, Rouault (che a ventitré anni aveva già dipinto quadri alla Rembrandt che gli attiravano fama e soldi), non esitò ad incamminarsi in una stretta strada di coerenza con sé stesso, di ricerca del nuovo, nella solitudine e nella ristrettezza economica.
Tabularium del Loggiato San Bartolomeo alla Marina (per ulteriori informazioni tf. 091.6682989 / 338.6671989): alle 17 di questa sera sarà la stessa Anna Rabot (direttore della Galleria d’Arte contemporanea della Pro Civitate d’Assisi) a guidare la prima visita, impreziosita dagli interventi del coro polifonico “Sancte Joseph” diretto da Mauro Visconti. Questa determinazione nel perseguire “la purezza della sua coscienza d’artista”, rinunziando a “fare della pittura che si vende subito, facilmente a tutti”, entusiasmò i Maritain (Raissa non esita a considerarlo “uno dei più grandi pittori di ogni tempo”). E il loro entusiasmo non poté che rivelarsi contagioso, spingendoci - nell’ultimo trentennio del secolo scorso - quasi in pellegrinaggio alla “Cittadella cristiana” d’Assisi dove sono custodite le 58 incisioni su rame note col titolo complessivo di “Miserere” (pubblicate originariamente qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale). Da oggi – e sino al 26 marzo – una riproduzione fotografica delle tavole, realizzata dal maestro Elio Ciol e corredata da didascalie scritte di pugno dall’artista francese, sarà liberamente accessibile presso il
Al di là delle risonanze emotive legate alla biografia di alcuni di noi, che rilievo oggettivo assume questa mostra didattica itinerante a Palermo?
Innanzitutto s’impone una ragione di carattere generale: la nostra città ha bisogno di iniezioni di bellezza. Lo storico Paolo Viola, da poco scomparso, mi diceva che l’aveva scelta – lui piemontese d’origine, laureato a Pisa, abitante a Roma – perché a suo parere sarebbe una delle città più belle d’Italia. Ma è imbruttita. Anzi – per evitare di pensare ad un processo biologico ineluttabile - abbrutita. Quanto scriveva Vincenzo Consolo ne Le pietre di Pantalica del 1988 resta ancora, per troppi versi, attuale: “Le zone di case lesionate, pericolanti, fatte evacuare, sono state chiuse da mura di cinta. Dietro queste fresche mura di tufo, si accumulano le immondizie del mercato, degli abitanti, le ossa delle macellerie, vi razzolano bambini, cani, gatti, vi ballano topi. Qui Palermo è una Beirut distrutta da una guerra che dura ormai da quarant’anni, la guerra del potere mafioso contro i poveri, i diseredati della città. La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza”.
Ma se la situazione fisica, materiale, è questa, la bellezza di cui abbiamo bisogno in città come la nostra non deve avere neppure l’apparenza della retorica. Dev’essere nuda, schietta, asciutta. Proprio come i quadri di Rouault che – com’è tipico dell’espressionismo - non concedono nulla all’eufemismo, all’abbellimento artificioso. (Leon Bloy, non sapendo di fargli un complimento, lo accusava di “essere attirato soltanto dal brutto”). Basta fare un confronto fra questo Miserere e una Via Crucis ‘media’ esposta nelle nostre chiese, dove il Messia sofferente ha i lineamenti stucchevolmente piacenti di un attore di Hollywood. È un po’ la differenza fra il Gesù di Pasolini e il Gesù di Zeffirelli (e non è un caso, forse, che Pasolini abbia avuto proprio alla Cittadella d’Assisi l’idea del suo film). Dico di Pasolini, non di Mel Gibson perché non si tratta di essere realisticamente truculenti: l’arte compie la magia di rendere liberatrice la contemplazione persino delle deformazioni. L’arte di Rouault rispetta la sofferenza dell’uomo Gesù in tutta la sua cruda concretezza, ma la trasfigura poeticamente: la fa diventare, per così dire, il prototipo della sofferenza di ogni uomo.
Augusto Cavadi
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