“Mezzocielo”, 2007, anno XV, N. 1
Augusto Cavadi
UN UOMO DAVANTI AL PIANETA DONNA
Per diventare misogino, essere cattolico non è necessario. Ma aiuta. Non è necessario: infatti i rudimenti della concezione della donna come maschio quasi perfetto me li ha impartiti un padre miscredente, laico, socialista (pre-craxiano: nenniano). Ma aiuta: infatti, quando - con stupore e disappunto da parte dei miei genitori - sono entrato nell’associazionismo cattolico, ho ben presto misurato la distanza fra la rivoluzionarietà di certe asserzioni ed il conservatorismo della pratica quotidiana. Da una parte il papa scriveva che l’essere umano può considerarsi “imago Dei” solo in quanto coppia; dall’altra, si dava (e si dà) per scontato che una persona di sesso femminile non possa presiedere una comunità celebrante. Il mio esodo - progressivo, ma inarrestabile - dalla cultura cattolica passò per un episodio preciso. Un prete più anziano di me - per altro tra i più preparati della sua generazione - volendo esprimere con forza il suo dissenso da una mia opinione, trovò spontaneo apostrofarmi con un inequivoco: “Ma hai proprio un cervello da femmina!”. Obiettai solo, con un sorriso amaro, che speravo di averne metà femminile e metà maschile: in modo che, junghianamente, sarei potuto essere ‘completo’.
So che certe distinzioni risultano fastidiose o, per lo meno, farraginose. Ma non sempre si possono evitare. Per esempio, quella suggerita da un’acuta fucilata di Nietzsche (recentemente definito da René Girard il più grande teologo dopo san Paolo): c’è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce. Che, tradotto in altri termini, significa: una cosa è stata la ‘buona notizia’ annunziata dal maestro nomade di Galilea ed un’altra la dottrina cattolica (e, più in generale,cristiana) che si è sviluppata a partire da quel seme. La psicanalista e teologa protestante Hanna Wolff lo ha spiegato in uno dei quattro o cinque libri che mi hanno cambiato la vita (Gesù, la maschilità esemplare, Queriniana, Brescia 1985): il Nazareno (per quanto possiamo cogliere da un’esegesi accurata dei quattro vangeli) ha saputo accettare il femminile dentro di sé e, proprio per questo, a non aver paura del femminile fuori di sé. Egli ha dunque rotto con la tradizione patriarcale precedente, ma la sua rottura è stata tanto eclatante che i discepoli non sono riusciti a reggerla: e, subito dopo la sua morte, hanno attivato processi di normalizzazione. Col risultato che, dopo la breve parentesi gesuana, l’antifemminismo ha ripreso vigore, si è fatto senso comune e ha improntato di sé l’occidente cristiano.Se ci chiediamo se questa mentalità della disparità ontologica e psicologica fra maschi e femmine (dura a destrutturarsi persino oggi, dopo decenni di femminismo teorico e militante) spieghi, da sola, l’impressionante catena di violenza contro le donne, non possiamo che rispondere negativamente. Che cosa, allora, trasforma una cultura maschilista in pratiche prevaricatrici? Ho l’impressione che entri in gioco non questo o quell’altro fattore, bensì un groviglio - difficilmente solubile - di fattori. Tra cui primeggia una connotazione peculiare dell’immagine femminile agli occhi di noi uomini: la diversità. Sin da bambino, il pianeta-donna ha esercitato nei miei confronti una duplice, contraddittoria, forza: di attrazione e di paura, di curiosità e di diffidenza, di desiderio e di minaccia. Per ragioni varie, che solo in minima parte potrei attribuire a meriti miei, maturare come persona ha significato - tra l’altro - sciogliere questa ambiguità e lasciar prevalere, di fronte ad ogni diversità (le donne, ma anche gli omosessuali, gli immigrati di colore, i portatori di handicap fisici e psichici…), il sapore della familiarità rispetto al sentimento di estraneità. Ovviamente, familiarità non equivale ad omologazione. Avvertire ciò che, in radice, accomuna non implica cecità riguardo alle differenze che interpellano le nostre certezze. Qui, forse, uno dei bivi decisivi. C’è chi accetta la sfida della diversità (e, nel caso di maschi, del femminile come metafora di ogni diversità) per mettersi in gioco, per riaffermare alcune convinzioni ma anche liberarsi da pregiudizi e da errati giudizi; e c’è chi non la regge e, per quanto sta in lui, tenta di sopprimerla. Non è un caso che, di solito, le idiosincrasie s’inanellino in lunghe catene difficili da spezzare: misoginia, omofobia, razzismo…E’ di per sé evidente che questa mentalità sia - già a livello ideologico - violenta. Ma, poiché in genere il diverso è più debole (fisicamente, economicamente, militarmente…), il pensiero omologante ha mille occasioni per farsi gesto prepotente: stupro, derisione, schiavizzazione…Quando un soggetto allergico alla diversità si impossessa - sessualmente o socialmente - dell’altro, ha la sensazione di aver risolto molti problemi in un solo colpo: da una parte ha soddisfatto attrazione, curiosità, desiderio; dall’altra ha cancellato dal proprio orizzonte ogni fonte di paura, di diffidenza, di minaccia. Ma, proprio nella misura in cui riesce a fagocitare e a spazzar via ogni ‘alterità‘, egli desertifica il piccolo mondo che lo circonda e costruisce da sé la prigione dell’isolamento. Ecco un punto nevralgico: chi progetta ed esercita violenza, nonostante le intenzioni, si condanna alla solitudine. Come i signorotti medievali, deve scavare fossati sempre più profondi per distanziarsi dagli estranei: ma, con ciò, trasforma in gabbie dorate il suo stesso castello. Sarà proprio perché amo la solitudine come opzione, ma la detesterei se la sperimentassi in tempi e modi non programmati, che mi viene abbastanza facile sottrarmi alla tentazione di usare violenza. Ciò non significa, purtroppo, che di fatto non sia stato troppe volte violento - nel corso della vita - con persone diverse da me per indole, formazione e prospettive (quali, per esempio, delle donne con cui ho condiviso tratti di strada importanti): ma ogni volta che non ho saputo gestire il conflitto, provocando nell’altro/a la decisione di fuggire, l’ho considerata - nonostante le apparenze - una mia sconfitta.