“Centonove” 8.12.06
I proverbi di Lopes
Tu ha raggiuni ma iò tortu unn’haiu: è questo uno dei proverbi siciliani, scelti e commentati da Roberto Lopes (con i disegni di Nicola Figlia), che dà il titolo al volume co-edito dall’associazione culturale “Prospettive” e dall’Ispe Archimede (Palermo 2006). Sin dalle note introduttive di Carmelo Lo Mino si può rintracciare una chiave di lettura della raccolta: la tradizione sapienziale popolare va guardata con devozione filiale, ma anche con spirito critico. L’autore – che in quanto cultore di etnologia ha voluto dare un contributo a che non si disperdesse un patrimonio in via di estinzione - non si è esentato, in quanto filosofo, dal “dovere di esercitare la critica nei confronti di una saggezza che, per molti, nel passato, ha costituito l’unica visione del mondo possibile nel gran mare dell’esistenza” (p. 3). Infatti, come scrive lo stesso Lopes, “il patrimonio della sapienza (a volte della insipienza) dei proverbi, dei modi di dire” costituisce un “immenso armamentario utilizzabile per le più svariate occasioni, soprattutto a giustificazione e legittimazione di decisioni già assunte” (p. 8).
Proprio questa strutturale ambiguità ha reso possibile, storicamente, l’utilizzazione ideologica della cultura siciliana da parte dei gruppi di potere mafiosi. Infatti da un secolo e mezzo - intendo da quando si sono organizzate - le associazioni mafiose hanno evitato di mostrare esclusivamente il loro volto violento, aggressivo, militare: come hanno messo in evidenza gli studi del centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, esse hanno adottato anche dei codici culturali per moltiplicare il consenso sociale. In questa operazione di lifting, è stato possibile strumentalizzare simboli, credenze e massime di vita appartenenti alla tradizione meridionale.
Una prima esemplificazione l’autore la offre là dove, a proposito del proverbio A megghiu parola è chidda ca nun si dici, annota: “E allora, di fronte ai problemi, alle tempeste della vita, alle burrasche, ai fiumi in piena, la fragile canna pensante che è l’uomo, questo fascio di impressioni, il giunco, come deve comportarsi? (…) Calati iuncu ca passa la china (tipico proverbio della mentalità mafiosa che, in presenza di difficoltà, aspetta tempi più propizi per rialzare la cresta)” (p. 18).
In altri casi il riferimento alle convinzioni condivise dai mafiosi e dall’aria grigia che li circonda è solo implicito. Per esempio, quando leggiamo Un porcu e un parrinu inchinu na casa (con rispetto parlando per il porco, specifica in sostanza Lopes nel suo commento, ricordando il valore del prezioso animale per l’economia di una famiglia contadina), come non andare con la memoria alla prassi di molte famiglie mafiose, a cominciare dal clan di Calogero Vizzini, che hanno voluto un figlio prete (e infatti, in famiglia, riuscivano persino ad avere vescovi)? Oggi si preferisce un figlio avvocato (con la speranza che diventi onorevole): ma la logica è la stessa. E’ la logica di chi, lungi dal porsi ‘fuori’ o ‘contro’ lo Stato, decide invece di infiltrarsi ‘dentro’ le istituzioni per manovrarle dall’interno e piegarle agli interessi privati.
Se ci fermassimo a questi primi due esempi poco edificanti, non renderemmo giustizia all’operazione tentata da Roberto Lopes. Mi pare di capire, infatti, che a, suo avviso, la sapienza popolare, in quanto ambigua, ha due volti: dunque anche una valenza positiva, costruttiva, illuminante. Perciò egli non si astiene dal sottolineare gli adagi che meritano di essere ripresi e attualizzati.
Anche da questo versante, possiamo limitarci a due flashes. Un primo è suggerito dal detto Tuttu u munnu è paisi: una sorta di dichiarazione spontanea, ingenua, di cosmopolitismo. Nonché uno spiraglio di speranza per generazioni di isolani costretti all’emigrazione e dunque esposti al rischio del rifiuto o dell’ospitalità sfruttatrice. Ma anche - nota con finezza l’autore – l’avvertenza ad evitare l’illusione di pensare di “fuggire dal proprio luogo di origine per cercare in un altro posto la propria identità” (p. 25). Egli cita in proposito Nicola Figlia, l’amico pittore che ha illustrato con le sue tavole proprio questa antologia: “Si può essere menziusari a Parigi e parigini a Mezzojuso, ad onta del detto Cu cancia locu, cancia vintura. Non è nello spazio che noi dobbiamo trovare la nostra identità ma nella capacità di rispondere alle nostre domande di senso sulla vita e la morte, che ci assalgono in qualsiasi parte della terra e di trovare un valido farmaco alla solitudine e alla mancanza di significato che insolentemente affiorano nella nostra vita razionale ed esigono una risposta ed un impegno” (p. 25). Il pensiero si sposta spontaneamente alla poesia La città di Costantino Kavafis. Lì, un ‘tu’ letterario - che potrebbe essere l’alter ego dello stesso poeta – esprime il proposito di lasciare la propria città “per altre terre, per altro mare”: “Dei lunghi anni, se mi guardo attorno, / della mia vita consumata qui, non vedo/ che nere macerie e solitudine e rovina”. Ma a queste dichiarazioni d’intenti risponde il disincanto di Kavafis: “Altrove, non sperare,/ non c’è nave non c’è strada per te./Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto/ tu l’hai sciupata su tutta la terra”.
Un secondo riferimento positivo Lopes lo ha trovato, ad esempio, nel detto Testa c’un parra si chiama cocuzza: ed il pensiero gli è andato, questa volta, alla figura - a lui tanto cara – di don Pino Puglisi, stroncato dalla criminalità mafiosa di Brancaccio per “aver rotto il muro di silenzio e di omertà” (p. 18).
Dunque, la saggezza popolare siciliana - consegnata alle massime di vita – proprio perché ambivalente può ancora illuminare il cammino delle giovani generazioni. Ma senza illusioni cognitivistiche. Non basta sapere qual è la strada migliore per poi percorrerla effettivamente. Lo aveva già notato Blaise Pascal, un pensatore francese del XVII secolo che in queste stesse pagine di Lopes viene - in più di un passaggio - evocato esplicitamente ed implicitamente: “Le buone massime ci sono tutte: si tratta adesso di metterle in pratica”.
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