giovedì 26 ottobre 2006

UN LIBRO DI SALVATORE COSTANZA


“Repubblica - Palermo”
26.10.2006

I trapanesi e il fascismo

Quanto è cambiata la Sicilia da cento anni ad oggi? Intuitivamente lo immaginiamo un po’ tutti, ma una cosa è rispondere a naso e tutta un’altra argomentare sulla base di documenti criticamente filtrati. Insomma: rispondere con i metodi delle scienze storiche. Più precisamente: con i metodi della storia ‘locale’. Che spesso cede al provincialismo e merita, per questo, d’essere considerata la Cenerentola delle specializzazioni storiografiche; ma che, potenzialmente, ha una sua dignità ed una insostituibile funzione. Essa infatti si accosta analiticamente ai frammenti della vicenda umana: ma vede in ciascuno di questi una sorta di cifra attraverso cui leggere i contesti globali.

E’ grazie alla microstoria , dunque, che è possibile misurare il cammino - pur lento, accidentato e contraddittorio – che la Sicilia ha compiuto nell’ultimo secolo. E’ quanto ha provato, con paziente lavoro sulle fonti di prima mano e con risultati apprezzabili, il trapanese Salvatore Costanza con le vicende della sua città scandagliate - dopo altri volumi a partire dal XVI secolo – con un recente saggio (Trapani fra le due guerre, Di Girolamo Editore) sul ventennio tra la fine della prima guerra mondiale (1918) e l’inizio della seconda (1939). L’esordio del volume sa di attualità: la differenza di prezzo dei prodotti agricoli e ortofrutticoli dal produttore al consumatore è enorme, a vantaggio di intermediazioni commerciali speculative, se non proprio parassitarie. La gente soffre, prefetto e politici promettono rimedi, ma in effetti non cambia nulla. Neppure le agitazioni contadine del “biennio rosso” (1919 – 20) sortiscono effetti degni di nota. Anzi, no, alcuni effetti si registrano: stragi di sindacalisti, militanti socialisti, contadini inermi (a livello locale), quasi a concorrere, con conflitti simili in altre zone del Paese, all’avvento al governo del partito fascista (a livello nazionale).
I ceti abbienti di Trapani fascisti lo diventano secondo, per così dire, la tradizione cittadina: senza particolare entusiasmo (pare che nessuno dei numerosi squadristi trapanesi presenti a Napoli al congresso che decise la marcia su Roma del ’22 vi abbia poi partecipato effettivamente), con qualche pigrizia e molta capacità di sfruttare il nuovo regime. Secondo l’autore, persino nella fase ‘rivoluzionaria’ il fascismo dovette scendere a patti con il blocco dei grossi proprietari terrieri trapanesi: dunque, anche, con porzioni non trascurabili di mafiosi. Lo stesso “prefetto di ferro”, Cesare Mori, “durante la sua reggenza a Trapani (tra il 1924 e il 1925) si esercitò abilmente nel senso di colpire le attività extralegali, ma conservando la rete delle complicità mafiose nel ceto agrario”. Da questo connubio , più o meno sincero, tra regime fascista e notabili del conservatorismo locale si formò - o, secondo i casi, si rafforzò – il dominio di alcune famiglie i cui cognomi (Todaro, Salvo, Adragna, D’Alì…) ricorrono frequentemente pure nelle cronache odierne. Un dominio che, anche se – come nel caso dei D’Alì - originato da attività imprenditoriali di tipo marittimo, si trasformò inesorabilmente in imprese di terra (agricoltura e produzione del sale, soprattutto) e in iniziative finanziarie (come la “Banca Sicula”). Significativa in proposito la vicenda dei Florio: se nell’Ottocento Ignazio e Vincenzo Florio avevano acquistato dai Pallavicino di Genova le Egadi (promuovendo la pesca del tonno e l’attività ittico-conserviera), nel 1937 l’azienda ritornava a un’altra famiglia genovese, i Parodi, “segnando un significativo tragitto a ritroso verso il capitale settentrionale”.
Non mancarono le resistenze al regime, ma - come spesso accade dalle nostre parti - restarono atteggiamenti individuali (”l’otium dell’erudizione storica” di un Carlo Guida e di un Francesco De Stefano o “l’itinerario di fede attraverso la poesia colma di religiosità naturale” di un Andrea Tosto De Caro), senza diventare un fenomeno politicamente organizzato e socialmente rilevante.
Queste e simili traiettorie spiegano il destino di Trapani che, da porto animato e proiettato sulla vicina Africa (1912-14), diventa il capoluogo di un entroterra in cui si ricostituiscono i grossi latifondi a spese dei piccoli coltivatori diretti incapaci di mantenere gli appezzamenti acquistati a fatica nei primi decenni del XX secolo. Non fu senza conseguenze la decisione del regime di “sopprimere l’Istituto Nautico, che da cento anni formava capitani e macchinisti in gran numero per il naviglio mercantile”.
La storia raccontata da Costanzo in questo volume - corredato da un’ ampia documentazione fotografica - si ferma all’inizio della seconda guerra mondiale. Potrà l’autore (che ha già dato alle stampe nel 2005 Tra Sicilia e Africa. Storia di una città mediterranea e nel 2006 Cultura e informazione a Trapani fra Otto e Novecento) compiere un ultimo passo avanti sino alla fluida realtà odierna di una città a vocazione frustratamente mediterranea?

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