Repubblica - Palermo
21.9.2006
La trappola relativista che blocca i siciliani
Il vocabolo ‘relativismo’ è diventato di moda da qualche anno, soprattutto grazie agli attacchi che gli sono stati rivolti da alcuni vertici della gerarchia cattolica (Joseph Ratzinger in testa) e da alcuni esponenti del neo-conservatorismo nostrano (Marcello Pera in testa). Per ragioni comprensibili, molti laici di tradizione illuministica hanno avvertito l’esigenza di difendere i diritti del relativismo o, comunque, di ogni prospettiva sul mondo di stampo soggettivistico: dunque, tra gli altri, il diritto di dubitare, di non accettare come dimostrate alcune tesi metafisiche o morali, di farsi una religione privata a misura dei propri sentimenti. Risultato: essere relativisti è diventato ‘rock’, in, di sinistra; antirelativisti ‘lento’, out, di destra.
Il quadro è stato messo in discussione da un recente, piccolo ma acuminato, libretto dello psicologo Giovanni Jervis che, nel suo Contro il relativismo (Laterza, Roma- Bari 2005), capovolge la prospettiva: attacca il relativismo non in nome della tradizione, del dogma, dell’autorità ma in nome della scienza, della ragion critica e del progressismo. A suo avviso, il relativismo si lascia condensare in due assiomi: uno di ordine conoscitivo (“le conoscenze sono opinioni, e tutte le opinioni si equivalgono”), l’altro di ordine comportamentale (“ognuno faccia ciò che vuole, poiché nessuno ha l’autorità di giudicarlo”).
La querelle, in più di un passaggio, suggerisce qualche istruttiva chiave di lettura delle vicende siciliane, anche recenti. Per esempio là dove l’autore delinea i due tipi antropologici opposti dell’ “antirelativista” (o ‘realista’ o ‘oggettivista’) e del “relativista”. Nella prima categoria rientrerebbe “l’individuo che non si sottrae alle incombenze inerenti al suo ruolo e si impegna cercando dati e fatti, valutando le cose nel modo più equanime possibile, quindi pronunziandosi”, prendendo posizione, sapendo che non tutti possono avere - contemporaneamente – ragione: “aderiscono a questa mentalità coloro – funzionari, agenti dell’ordine, magistrati, giornalisti, e anche professori universitari – che ritengono abbia un senso la locuzione ‘responsabilità civica ’ , e un senso forte. Tutte queste persone ritengono quindi che sia importante sforzarsi di esprimere giudizi coerenti, fattuali, non personalistici e neppure, se possibile, discrezionali. Altrimenti ritengono che ne nascano – sempre – favoritismi e ingiustizie”. Di contro, la mentalità relativista “fa leva sul presupposto che tutti quanti abbiano i loro bravi motivi per fare quello che fanno, per cui il pretendere di valutare le azioni altrui diventerebbe una rischiosa intrusione. Si parte dunque da un ‘cosa ne sappiamo, in fondo?’ e si passa attraverso ‘tutti hanno le loro ragioni’ osservando infine che ‘tutti hanno i loro interessi’. Ed ecco discenderne una regola di comportamento: non giudicare, non prendere posizione. Eventualmente, quindi, scegliere una linea blanda, assecondante, comunque mai rischiare troppo”. Chi aderisce a questo orientamento ha a disposizione anche un armamentario di saggezza in pillole: “Ogni regola ha le sue eccezioni”, “bisogna valutare caso per caso”, “non smuovere le acque”, “ognuno si faccia gli affari suoi”, sino alla “formula suprema, secondo Ennio Flaiano: tengo famiglia” (pp. 42 – 43).
Jervis sostiene, giustamente, che questa “collana di formule relativizzanti” è ben nota a tutti “gli italiani”: ma in Sicilia non è forse un po’ più nota che altrove? Forse perché Gorgia, il più scettico dei sofisti, era siciliano? Forse perché, come osservava Sciascia a proposito della religiosità dei conterranei, il siciliano - intimamente – non crede a nulla? Non saprei. Quel che mi pare indubbio è che, se i non-relativisti corrono il rischio del moralismo intransigente e magari del fanatismo, dalle nostre parti questo rischio non lo si sfiora neppure. Sin dal consiglio di classe della prima elementare il bambino, anche poco ligio alle regole e non molto incline allo studio, trova almeno un protettore tra gli insegnanti che ne perora la promozione alla classe successiva: e così in prima media, poi in prima liceale, poi in sede di laurea. Talora questo buonismo si ammanta di ideologia progressista ( e vede in ogni deficienza intellettuale o comportamentale l’esito inevitabile di condizionamenti economico-sociali), ma più spesso si rivela nella sua nudità: idiosincrasia nei confronti delle regole e paura di pagare le conseguenze delle proprie decisioni. Ovviamente la pestilenza di questo relativismo nostrano allo sfincione non si ferma dentro le aule scolastiche ed universitarie: trasborda nelle aule giudiziarie, nelle redazioni dei mezzi di comunicazione, negli uffici pubblici. Con conseguenze talora ridicole, tal altra tragiche: come quando l’allora assessore regionale all’agricoltura Salvatore Cuffaro ha esitato, per mesi, a firmare il licenziamento del dipendente Sprio richiesto dal funzionario Filippo Basile, sino a quando quest’ultimo non è stato assassinato su mandato della sua ‘vittima’.
Il “tanto sono tutti uguali” è ormai diventato ‘senso comune’. Le recenti competizioni elettorali lo hanno confermato al di là di ogni pessimismo. Vado ancora chiedendo, ai conoscenti che hanno votato alcuni candidati di acclarata vicinanza ai mafiosi, perché - pur essendo persone soggettivamente pulite - abbiano agito così. E la risposta è monotonamente simile: “Chi mi dice che i giornali non mentono riferendo sulle udienze dei processi ?”, “Chi mi dice che, ammesso che i giornali siano corretti, giudici e testimoni non siano in combutta fra loro ?”, “Chi mi dice che anche i giudici onesti non stiano sbagliando in buona fede?”, “E comunque, i candidati sono tutti uguali: se arrivano a vincere, perdono la testa”. La trappola del relativista è sempre pronta a scattare: o l’infallibilità o il sospetto generalizzato. E siccome l’infallibilità - almeno nel 99% dei casi della vita – è impossibile…
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