“Repubblica – Palermo”
29.9.06
Malattia e dolore: una sfida culturale.
Pochi lo sanno, ma l’Ospedale Civico di Palermo si è dotato da alcuni anni di un hospice per malati terminali. Quando ho avuto modo di visitarlo, in circostanze non proprio allegre, stentavo a credere ai miei occhi: stanzette singole arredate di tutto punto e con gusto, corridoi lindissimi, salottini per leggere, vedere la tv o semplicemente conversare con gli ospiti. Si era davvero in una struttura pubblica del profondo Sud o in una clinica privata svizzera? Unico neo: la limitatissima recettività. Non più di quattordici degenti a volta (con lunghe, e dolorose, liste d’attesa).
Questo fiore all’occhiello del Civico non si sarebbe realizzato senza la testardaggine fattiva di alcuni operatori sanitari - come il direttore dell’unità operativa “cure palliative” Giorgio Trizzino - che da anni provano a modificare i tratti essenziali dell’atteggiamento culturale più diffuso nei confronti della sofferenza fisica. I medici, gli infermieri, i parenti, i malati stessi recepiscono - in genere – alquanto passivamente la duplice convinzione tradizionale che la vita biologica sia un valore assoluto, da salvaguardare ad ogni costo, e che il dolore ne costituisca una dimensione ineliminabile, anzi salutare.
Alla luce di questi due princìpi, tanto più condivisi quanto meno sottoposti a discernimento, si è sedimentata una prassi discutibile e, oltre un certo limite, francamente aberrante: la meritoria ricerca di nuovi rimedi clinici è diventata - lentamente ma inesorabilmente – accanimento terapeutico (sia a scopo di lucro nel caso dei pazienti danarosi sia a scopo sperimentale nel caso dei pazienti indigenti e indifesi). In più, e in peggio, questa spasmodica ricerca di espedienti per prolungare la sopravvivenza fisica del paziente (che sarebbe, comunque, sintomo di voglia di innovazione) non si accompagna ad un uguale attivismo nella ricerca di analgesici efficaci. Insomma: ci si ingegna ad allungare la vita senza sovvertire la radicata diffidenza verso tutti quei farmaci che possano, ottundendo la sensibilità del malato grave, lenirne la sofferenza organica e psichica. Ancora in queste settimane ho constatato un’inimmaginabile resistenza, da parte dei medici di base, ad assumersi la responsabilità deontologica di prescrivere oppiacei e altri sedativi forti a soggetti in preda ai sintomi tipici degli stadi terminali (anche per evitare la catena di adempimenti che la normativa attuale impone a chi prescriva simili farmaci). In questo clima culturale così arcaico è facile intuire quanto sia arduo anche solo impostare laicamente la questione della legalizzazione dell’eutanasia (come dimostra il vibrante appello dal suo giaciglio d’ospedale, al Capo dello Stato, di Piergiorgio Welby) .
Se la politica non fosse, come l’ha definita ironicamente qualcuno, l’arte di distrarre la gente dai problemi veramente rilevanti, sarebbe questo un ambito prioritario di riflessione e di mobilitazione popolare. Checché ne abbia scritto Francesco Merlo sulle pagine nazionali di “Repubblica”, infatti, è illogico ipotizzare che parlamento e governo si esonerino dal dovere di fissare - per quanto pochi ed essenziali – dei paletti giuridici. La preoccupazione dev’essere piuttosto un’altra: che Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi provino a sintonizzarsi con la reale coscienza etica dei cittadini (in questo caso – pare - illuminata) e non con centri di potere ecclesiastico (a cui, per altro, si attribuisce un seguito popolare più immaginario che effettivo persino fra i cattolici). E proprio per creare un’occasione democratica di informazione e di discussione sul tema, che possa fornire anche ai rappresentanti del potere legislativo indicazioni meditate, la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” organizza, nel week-end fra sabato 30 e domenica 1, un seminario residenziale presso l’ex-convento dei “Padri riformati” (oggi suggestiva sede universitaria) messo a disposizione dall’amministrazione comunale di Petralia Sottana (per iscrizioni tf. 091.514871-328.8135673-338.4907853- pspalla@neomedia.it). L’invito è rivolto a professionisti della sanità (tra cui cultori di medicine ‘alternative’), giuristi, filosofi e teologi: ma, soprattutto, alle persone ‘comuni’ che hanno sperimentato - o sperimentano in atto - la visita devastante della malattia nella loro casa se non, addirittura, nella loro carne. Ed anche a quanti si cullano nell’illusione infantile che certe cose debbano capitare soltanto agli altri. Le soluzioni istituzionali, sia normative che burocratiche ed organizzative, si trovano: ma non prima che l’evoluzione della coscienza collettiva ne avverta l’esigenza, le chieda con forza, pressi da vicino chi ha la titolarità per vararle. E ciò non avverrà sino a quando, già a livello mentale, non sarà maturata la convinzione che la difesa della vita biologica è sensata a patto che ciò non mortifichi altre dimensioni della persona; e che il dolore fa parte dell’esperienza umana di fatto, come uno scacco, non di diritto, come un merito. Insomma sino a quando la maggioranza dei cittadini - anche grazie all’opera degli intellettuali, degli artisti e dei mezzi di comunicazione - non si sarà convinta che, per quanto preziosa, la durata della vita è meno rilevante della sua qualità.