giovedì 17 agosto 2006

INTERVISTA AL GURU


“Repubblica – Palermo” 17.8.06

LA RICETTA LOCALISTICA DI LATOUCHE

Serge Latouche, economista francese (“un marinaio bretone”, ama precisare orgoglioso del suo inseparabile berretto blue) di ampia notorietà internazionale, ma eretico. E non su questo o quell’altro dettaglio di dottrina, ma su una questione centrale: la necessità di superare l’ottica economica (che sta accompagnando il pianeta alla catastrofe) per leggere la storia, presente e soprattutto imminente, da una prospettiva più ampia. Che includa la politica, la cultura, l’etica e, soprattutto, la dimensione sociale dei rapporti interpersonali. Forse proprio questo è tanto richiesto nei convegni in cui si prova a disegnare un mondo alternativo. E’ in Sicilia, ospite della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”: lo incontriamo per cercare di capire se le sue teorie ‘antisviluppiste’ possano interessare la nostra regione.


Nella Sua interpretazione, l’Occidente è stato dannoso prima per il Terzo mondo, adesso anche per sé stesso. Esso infatti è fondato sull’idea di ‘sviluppo’: ma è proprio questa categoria, diventata quasi un idolo, a minacciare il futuro della Terra. Da qui la necessità di de-occidentalizzare il mondo. Ma questo può valere anche per la Sicilia? Si può uscire dall’ottica occidentale del Primo mondo quando ancora non vi si è entrati del tutto?

- La Sicilia è un caso a parte. Forse tutti i casi sono particolari, ma la Sicilia può risultare – almeno ai siciliani - particolarmente particolare. La questione meridionale, antica di più di un secolo, attesta che la contraddizione fra il Nord e il Sud del mondo passa anche attraverso l’Italia. Ma è poi vero che la Sicilia non sia al centro dell’Occidente? Dal punto di vista della storia, lo è stata. Non così dal punto di vista economico: da questa angolazione è infatti, per dirla col Wallerstein, periferia o semiperiferia. E’ come se essa avesse conservato il peggio del Terzo mondo, senza aver ottenuto tutti i vantaggi del Primo mondo.

Lei ha partecipato in questi giorni ad Erice ad un seminario incentrato sulle sue tesi circa la necessità di invertire la marcia trionfale verso il progresso. Data la condizione di ambiguità della Sicilia, in che modo pensa che possa valere anche per essa la sua “teoria della decrescita”?

- Imboccare la strada della decrescita in Sicilia è importante proprio perché essa possiede ancora un patrimonio da salvaguardare non solo naturalistico, ma anche artistico, culturale e anche economico. Vi sono infatti mestieri, sia contadini che artigianali, che sarebbe un delitto abbandonare per sempre. Ma al medesimo tempo si capisce che è più difficile che in altre regioni industrializzate perché il desiderio di partecipare alla società dei consumi è più forte: si deve oltrepassare la colonizzazione dell’immaginario. Due i suoi vantaggi principali, per altro legati fra loro: è geograficamente un’isola e possiede
una forte identità culturale.

Non si tratta allora, come insinua qualche suo critico, di tornare indietro nel tempo, agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando nel Meridione scarseggiavano cibo e vestiario…

…Ma per niente! Si tratta di costruire una vera post-modernità traendo le lezioni della civiltà industriale e, nel medesimo tempo, preservando gli aspetti positivi della tradizione. Una società della decrescita significa, prima di tutto, una società che ritrova il senso del limite e ripudia una logica di tracotanza (la hybris condannata dai Greci che in questa vostra terra hanno lasciato tante tracce rilevanti). Significa una società ecologicamente sostenibile, meno consumista ma al medesimo tempo meno ingiusta, più ricca dal punto di vista delle relazioni umane: meno spreco, più riciclaggio e riutilizzo dei prodotti usati, più tempo libero e più occupazione per tutti. Per realizzare questo si deve non solo rilocalizzare le attività produttive (agricoltura, artigianato, industrie…) ma, soprattutto, ritrovare il senso del vivere localmente anche se con uno spirito aperto sul mondo.

Anche recentemente in Sicilia sono apparsi dei movimenti politici che, scimmiottando la Lega Nord di Bossi, propugnano un’autonomia amministrativa ed economica molto più accentuata di adesso. Del resto, è una vecchia aspirazione delle associazioni mafiose fare della nostra isola uno Stato separato dal resto del Paese…

C’è sempre la possibilità di strumentalizzare le aspirazioni legittime di un popolo all’autogoverno. Bisogna essere chiari sul progetto di società post-moderna che vogliamo costruire. Il localismo da me auspicato non è un ripiegamento aggressivo contro gli altri ma la volontà di partecipare alla costruzione di un futuro sostenibile per il pianeta. Insomma: si tratta di articolare le diverse esperienze di autogestione locale in modo da interconnetterle, come in Italia cerca di fare la rete “Nuovi municipi”.

giovedì 10 agosto 2006

L’INDUSTRIA SICILIANA DEL TURISMO


REPUBBLICA 10.8.2006

Una domenica a Segesta

E’ con orgoglio che accompagni i tuoi ospiti francesi ai piedi della collina di Segesta. Dentro di te, tacitamente, speri che la magia del luogo faccia dimenticare per un attimo i cumuli di immondizie a Palermo, l’autobus desapparecido a Trapani, le auto in terza fila ovunque. Ti accosti timidamente alla guardiola piazzata strategicamente all’inizio della strada per il teatro, ma un signore non proprio squisito ti avverte: “Si procuri i biglietti prima delle 17 perché, dopo quell’ora, non faccio salire nessuno”. “Non faccio salire”: ed il tono, consono ai termini adottati, è del padroncino che detta legge. Ancor più timidamente chiedo spiegazioni e, con comprensibile fastidio (l’avrà ripetuto centinaia di volte), informa che alle 17.30 cominceranno le prove dello spettacolo serale. Un cartello anche scritto col pennarello non sarebbe stato più comodo e più civile?

Vado al bar vicino e, pazientemente, mi metto in coda per i due biglietti: ingresso al parco archeologico e passaggio in bus-navetta. Quando viene il mio turno, mi si spiega che posso acquistare solo il biglietto del bus: per l’ingresso devo rifare un’altra coda presso il negozio di souvenir limitrofo (e comunicante con una porta interna sempre aperta). C’è caldo, c’è folla: ma non ci sono alternative. Quando finalmente sono all’ingresso del sentiero che porta al tempio, uno degli addetti al controllo (sono due: ma più su noterò che il tempio è in balìa totale dei turisti) ripete ad un altro visitatore la necessità della doppia fila. Non è siciliano: gli chiedo scusa, a nome dei siciliani, per l’irragionevole corvée. E’ a questo punto che il solerte controllore dei biglietti mi aggredisce verbalmente e, urlando, mi chiede come ci si sarebbe potuto organizzare diversamente: “Non le sembra giusto che debbano mangiare i gestori di tutti e due i negozi?”. Già: come non averci pensato prima? Il criterio non può essere favorire migliaia di turisti, ma stabilire quanto debbano “mangiare” i due commercianti (con monopolio) in zona. Eppure, l’obiezione non mi convince ed oso accennare ad una possibile soluzione: “E se entrambi i negozi vendessero entrambi i biglietti? Non ‘mangerebbero’ in egual misura senza stressare i visitatori?”. Ma il cortese interlocutore non mi ascolta: è troppo impegnato ad imprecare contro i siciliani che, come me, hanno il vezzo di lamentarsi per ogni piccolo inconveniente. A differenza degli ‘stranieri’.
Forse ha ragione lui. La nostra isola è talmente ben fatta, e talmente zeppa di arte, da far perdonare la miopia degli isolani e delle amministrazioni pubbliche che la consentono. La signora della coppia che accompagno, infatti, nel momento in cui risaliamo in auto per andar via, osserva a mezza voce: “Poche volte nella vita può accadere di vedere cose così belle”.

venerdì 4 agosto 2006

RANDAGISMO IN SICILIA


Repubblica - Palermo
4.8.06

ANIMALI: UN’ESTATE DIFFICILE

I ‘padroni’ che vanno in ferie, i loro ‘amici’ animali abbandonati al randagismo. Un quadro nazionale ben noto ma che, in Sicilia, acquista tinte - se possibile – ancor più fosche. Qui infatti la legge nazionale 281 del 1991 è stata recepita con nove anni di ritardo, ma senza decreti attuativi: in poche parole, rimane sulla carta. Come scrive sull’ultimo numero di “Impronte” Marcella Porpora, coordinatrice della Lav (Lega antivivisezionista) siciliana, la sua associazione ha inviato a gennaio un questionario ad Asl e ai Comuni capoluoghi di provincia per conoscere la situazione del randagismo nell’isola, ma ricevendo “risposte scarne e in alcuni casi grossolanamente contrastanti”. In particolare, rigoroso silenzio dal Comune di Palermo e dall’Ausl 6 (la quale, per altro, ha in cantiere un canile consortile di ben 800 posti in quel di Monreale): così come nel caso delle amministrazioni municipali di Catania, Enna, Trapani.

Niente di stupefacente, per altro: gli enti pubblici incaricati per legge “intervengono poco o nulla in tema di sterilizzazione ed inserimento dei microchip nei randagi” né si preoccupano di controllare “la presenza dei microchip nei cani padronali (principale fonte del randagismo)”. E dire che non si tratta di un fenomeno trascurabile: secondo l’Assessorato regionale alla sanità, nel dicembre 2005, vagavano per le nostre strade circa 68.000 cani senza guinzaglio (e la cifra è approssimata certamente per difetto) e solo uno scarso 30% dei 246.000 cani di proprietà è dotata di regolare microchip.
Risultato: gli incoscienti potranno continuare, impuniti, a disseminare per l’isola animali in balìa di fame, sete e amarezza. Gli unici beneficiari: i canili privati convenzionati che dichiarano una mortalità vicina al 100% dei loro ospiti, ma ricevono profumate sovvenzioni pubbliche. Così la nostra regione si candida al primato nel numero dei lager: per immigrati (i famigerati “Centri di permanenza temporanea” sui quali si attendono ancora decisioni radicali da parte del neo-governo nazionale) e per cani. E non per caso. L’insensibilità verso la sofferenza dei viventi è raramente settoriale: di solito, chi fa il callo al dolore di qualcuno sarà più predisposto ad assuefarsi al dolore altrui. Quando si legge della gara di caccia ai conigli organizzata a giugno a Racalmuto (con tanto di patrocinio della Provincia di Agrigento), nonostante il divieto di porto d’armi in periodo di silenzio venatorio, come non ricordarsi delle dichiarazioni di mafiosi che avrebbero imparato a non aver paura del sangue proprio partecipando alle prime battute di caccia della loro adolescenza?
So già che queste denunce incontrano l’obiezione di chi sostiene che in Sicilia abbiamo emergenze ben più gravi della condizione dei cani e dei gatti. E’ vero. Ma è anche vero che tutto si tiene e le illegalità, intrecciandosi, non si sommano: si moltiplicano. Ogni punto dolente può dunque essere scelto come avvio di una - ahimé tardiva – ripulitura: basti pensare al nesso fra pesca abusiva e inquinamento della concorrenza fra operatori del settore (nel 2005 sono state sequestrate 800 kilometri di reti spadare, bandite dall’UE sin dal 2002) o fra le corse clandestine dei cavalli (l’ultimo intervento della polizia nella notte fra il 10 e l’11 giugno a Messina) e la speculazione dei mafiosi sulle scommesse. O anche fra la macellazione incontrollata dei bovini e le conseguenze sanitarie sui consumatori ignari (nessun vigile urbano passeggia per i mercati di Ballarò o della Vucciria nelle ore in cui si scaricano le celle frigorifere? I cittadini insospettiti sussurrano ipotesi inquietanti ma non osano esporsi con una denunzia formale). Senza contare i risvolti positivi in termini occupazionali (veterinari, infermieri, custodi) di una politica più attenta ai diritti di chi non ha parola per rivendicarli, ma muscoli, nervi e affettività per subirne la sistematica violazione.