ADISTA
22.7.06
UN PANE CHE CREA SCANDALO
Anno B, XXI del t.o. Gv 6, 60-69
I preti sogliono ricattarci con una sorta di aut-aut davanti ai “discorsi duri” attribuiti a Gesù di Nazareth: prendere o lasciare, accettare per fede o voltare le spalle. Molto spesso questa radicalità è solo la parodia dell’originale. “Duro” il parlare dell’Inviato lo è: ma in che senso? Perché incomprensibile, sideralmente lontano dalle categorie umane, intrinsecamente assurdo – o piuttosto perché accettarlo, interiorizzarlo, comporterebbe degli sconvolgimenti esistenziali a cui non siamo disposti? Già nel XVIII secolo Leibniz osservava con fine ironia che gli uomini trovano convincenti le argomentazioni che non implicano mutamenti pratici: se condividere il teorema di Pitagora ci costringesse a modificare il comportamento abituale, anche la geometria diventerebbe tutto a un tratto opinabile…
Prendiamo proprio la provocazione della lettura odierna (ben sapendo che si tratta di una costruzione teologica dell’evangelista più che di un resoconto storiografico fedele). Gesù, nei versetti precedenti, si era presentato come “il pane disceso dal cielo” e ciò in funzione di una promessa: “Chi si ciba di questo pane, vivrà per sempre” (6,58). Ebbene: sono queste espressioni a “scandalizzare” gli ascoltatori. Come mai? Perché non ammettono come vero un ‘mistero’ sovrarazionale (la possibilità che, in qualche maniera sacramentale, ci si possa cibare, nonostante le apparenze, della vera carne e del vero sangue del Messia)? Non pochi commentatori suggeriscono questa interpretazione. Ma, se fosse vera, l’autore del vangelo secondo Giovanni mostrerebbe scarso rispetto per l’intelligenza dei primi discepoli. Infatti, a scanso di equivoci così eclatanti, fa dire a Gesù stesso: “Lo Spirito è quello che vivifica, la carne non giova a nulla. Le parole che vi ho detto sono spirito e sono vita” (6, 63). Tirarsi indietro perché si era intesa la proposta messianica su un registro errato scambiandola con una sorta di cannibalismo mistico – e per giunta senza comprendere l’avvertimento di spostarsi su un registro diverso, metaforico, ‘spirituale’ - sarebbe stato da persone doppiamente stupide. I “molti” che “non andarono più con lui” (6,66) lo decidono per motivi più seri: non se la sentono di mettere “la buona notizia” del Cristo al centro dei loro interessi vitali. Se ne vanno non perché hanno capito male, ma perché hanno capito troppo bene: è chiesto loro di sostituire alla quotidiana, affannosa ricerca del proprio ‘pane’, la fruizione del “pane di vita” (6,35). Dunque: il Figlio di Dio (cioè il Messia) e il “regno di Dio” di cui egli è rivelatore. Questo sì che è “duro” da accettare! Le certezze economiche e le garanzie per il futuro: ecco altrettante aspirazioni, in sé legittime, su cui concentriamo la stragrande maggioranza delle nostre energie. Ma qualcuno ci avverte che l’assidua preoccupazione per il “pane quotidiano” può perdere i connotati dell’innocenza e diventare alibi per non preoccuparsi di altro: meno che mai dell’Amore che Dio è per noi. L’attenzione alla propria sopravvivenza diventa, allora, indifferenza nei confronti della fame dei fratelli: e il pane consumato nel chiuso della propria casa, per quanto guadagnato col sudore della fronte, cessa di essere vivificante. Non è più il pane della festa, della convivialità: degrada a pane mortale che toglie alla breve esistenza mondana il suo sapore più autentico. Non resta che la tristezza di necrologi involontariamente autodenigratori: “Dopo una vita interamente dedicata al lavoro e alla famiglia, si è spento il signor Tal dei Tali”. E una domanda impertinente: “Ma, prima, si era mai acceso davvero?”