“Repubblica – Palermo”
28.4.06
LA RIVOLUZIONE CHE PARTE DAI COMMERCIANTI ANTIPIZZO
Martedì 2 maggio, alle 10, poche ore prima dell’udienza di uno dei tanti processi che vedono imputato Bernardo Provenzano, il “Comitato Addiopizzo” taglia il primo traguardo. A un anno dal lancio della campagna “Contro il pizzo cambia i consumi”, presenterà, in conferenza stampa nazionale nella Sala Magna dello Steri, sede del rettorato dell’Università degli Studi, una lista di 100 commercianti, di Palermo e provincia, che non pagano il pizzo e lo dichiarano pubblicamente. Una lista che fa da indispensabile pendant all’elenco di più di 7000 clienti che si sono, sino ad ora, impegnati a fare consumo critico, preferendo “pagare chi non paga”.
Comprensibile la soddisfazione dei giovani e degli imprenditori che hanno promosso l’iniziativa (definita, da una ragazza del gruppo, “significativa quanto la cattura di Provenzano”): chi, sin dall’inizio, appariva scettico su questo primo - circoscritto - obiettivo, dovrà ricredersi. Anche in Sicilia è possibile che una sia pur minima percentuale di cittadini alzi la testa piegata sotto il giogo mafioso. Ed è un sintomo di gioia trasformare lo slogan iniziale (”Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità“) in una formulazione al positivo: “Un intero popolo che non paga il pizzo è un popolo Libero” (dove la maiuscola non è errore ortografico, ma felice allusione a Libero Grassi).
Alle autorità competenti ed ai semplici cittadini, che hanno accompagnato questi ragazzi nei loro primi passi, spetta adesso l’onere di non abbandonarli: anche per evitare che la soddisfazione diventi trionfalismo e il trionfalismo delusione.
Prima di tutto, sullo stesso piano in cui si è operato sino ad ora, è necessario moltiplicare i consensi. Ci sono ambiti in cui la quantità fa la qualità: cento commercianti disubbidienti costituiscono un segno profetico, diecimila un fatto storico. E resistere in diecimila è molto più facile che in cento. Perciò davvero i consumatori dobbiamo preoccuparci di incrementare sensibilmente gli introiti dei negozi e delle ditte che hanno avuto il coraggio di esporsi. Dimostrando che l’antimafia può essere conveniente, che (secondo la lezione di Tano Grasso) i valori possono coniugarsi con gli interessi.
Secondariamente, è necessario inserire questa battaglia in una strategia economica più ampia. Il sistema mafioso - intendo dire - va prosciugato contemporaneamente da ogni altro canale di finanziamento. Non pagare il pizzo, o lasciare che siano sempre meno gli operatori che lo pagano, è importante: ma non è tutto. Occorre stroncare l’usura, la produzione e lo smercio delle droghe, il contrabbando delle sigarette, il giro delle scommesse clandestine sulle corse dei cavalli o le lotte fra i cani, lo smaltimento dei rifiuti (soprattutto tossici), l’abusivismo edilizio nei centri urbani e sui luoghi di villeggiatura, i rimborsi gonfiati alle strutture sanitarie private, l’assegnazione spartitoria degli appalti…
Ciascuno di questi esempi tira in ballo istituzioni pubbliche: il sistema creditizio bancario, la normativa nazionale sui tossicodipendenti (con la questione, non irrilevante, della depenalizzazione dell’uso personale delle droghe leggere), la vigilanza della Guardia di Finanza, dei Carabinieri e della Polizia di Stato, la tempestività dell’azione giudiziaria, la trasparenza dei municipi…E’ del tutto evidente, dunque, che ogni strategia economica di contrasto al dominio mafioso, per quanto intesa e realizzata in senso allargato, va a sua volta inserita in un quadro complessivo ancora più generale. Essa, infatti, presuppone - alle spalle e davanti - un ricambio radicale del ceto politico, un aggiornamento meditato ma coraggioso della legislazione, un ripensamento dell’etica personale e pubblica. Ce n’è abbastanza per scoraggiarsi? Forse. Non meno grave, però, sarebbe il rischio opposto della semplificazione. Sterile, infatti, la posizione massimalista di certa sinistra che, con tono di sufficienza, deride i piccoli risultati settoriali; ma deludente la miopia dei ‘moderati’ che procedono, di mossa in mossa, senza un progetto d’insieme. Non resta che una direzione: uno scatto di orgoglio civile che faccia vibrare, trasversalmente, gli onesti di ogni schieramento partitico e culturale. Che convinca gli elettori di sinistra, di centro e di destra della priorità di rimandare a casa qualsiasi amministratore in rapporti , stabili e documentati, con esponenti di “Cosa nostra”. Che sradichi, alla base, la possibilità di leggere altre intercettazioni ambientali in cui un mafioso confidi ad un altro tutta la sua diffidenza verso i politici in attività (”Non ti fidare, è gente poco seria”). Tra poche settimane l’apertura dei seggi elettorali consentirà questa possibilità concentrando i consensi su una donna al di sopra di ogni sospetto: chi, legittimamente, non ne approfitterà, abbia il buon gusto di non lamentarsi per i prossimi vent’anni.
Da progressista non mi entusiasmo per nulla allo spettacolo di un deputato centrista che, se vuole provare ad essere coerentemente antimafioso, deve abbandonare le proprie fila. Se mi venisse in mente il modo, preferirei dargli una mano affinché vincesse la battaglia di legalità e di democrazia all’interno delle sue organizzazioni in nome di un conservatorismo dignitoso. Vicende del genere, da gestire con elasticità in una prospettiva tattica, cessano di essere auspicabili in un’ottica strategica. In un’ottica che coltivi l’alberello senza dimenticare la foresta: che prenda sul serio, dunque, l’iniziativa dei ragazzi antipizzo o il disagio del deputato neodemocristiano, ma lavorando per una società altra in cui i mafiosi non possano più distinguere tanto facilmente - per così dire automaticamente - i fronti avversi dagli schieramenti amici.