“Repubblica – Palermo”
23.3.06
CONTROCORO SUL DECLINO INTELLETTUALE
Nel corso del 2004 l’ “Unità” soprattutto (ma anche, occasionalmente, qualche altra testata nazionale) ha ospitato una serie di interventi a partire da un articolo di Romano Luperini incentrato su due punti principali: l’Italia è pienamente coinvolta in un processo più globale di “declino di civiltà” e questa depressione è dovuta, anche, al divorzio fra attività intellettuale e impegno sociale. Sino a trent’anni fa, “i registi italiani erano maestri riconosciuti in tutto il mondo, e si chiamavano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini. Fra gli scrittori, Calvino e Sciascia avevano un ruolo di primo piano in Europa”; oggi gli esordienti “si dilettano in racconti ginecologici e ombelicali, a base di cazzo e di vomito; gli scrittori di mezza età si attardano in uno stanco postmodernismo manieristico. Per il cinema (…) si è parlato recentemente di ritorno a un confronto con la realtà e con la politica, ma, visti in questa luce, i film che dovrebbero esprimerlo risultano alquanto deludenti” (vedi La meglio gioventù di Giordana, The dreamers di Bertolucci e Buongiorno notte di Bellocchio). Ovviamente le reazioni al sasso nello stagno di Luperini sono state di segno contrastante: polemiche sino all’aggressività alcune (Cotroneo, Busi, Scarpa, Moresco, Sebaste, Benedetti), più misurate e sostanzialmente concordanti altre (Voce, Siciliano, D’Elia, Ganeri, Ferroni, Simone, Palandri, Cortellessa, Piovani, Guglielmi, De Vivo, Virgilio, La Porta, Berardinelli).
Di questo dibattito si sarebbe perduta memoria se Franco Marchese, stimatissimo docente palermitano e animatore della rivista “Chichibìo”, non si fosse preoccupato di raccogliere i testi in un dossier (Intellettuali, letteratura e potere, oggi. Un dibattito suscitato da Romano Luperini, Palumbo, Palermo 2005) impreziosito dalla sua articolata Presentazione (pp. 7 – 11). Impossibile evocare gli innumerevoli spunti disseminati nella raccolta di interventi. Ma due o tre, almeno, vanno sottolineati.
Il primo viene da Giulio Ferroni. La situazione culturale e politica attuale è davvero asfittica. Ma “è davvero tutta colpa della televisione e di Berlusconi? O non forse alcune derive sono state sostenute e favorite dalla stessa sinistra e dai suoi intellettuali? Non c’era già un po’ di berlusconismo in tanto narcisismo politico-intellettuale, in tanto culto dell’apparenza, del successo, dell’effetto pubblicitario, della trasgressione provocatoria, dell’allegro cinismo mediatico, del nichilismo desiderante, di cui si sono nutriti tanti intellettuali più o meno ‘di sinistra’ ? ” . Se Ferroni avesse anche solo un po’ di ragione, sarebbe rafforzato il timore di Luperini: “se liberarsi di Berlusconi come uomo politico sarà questione, voglio sperare, di mesi o di pochi anni, liberarsi dal berlusconismo sarà, tempo, molto più lungo e molto più difficile”.
La seconda considerazione la suggerisce Angelo Guglielmi. Fare diagnosi sui mali è importante, decisiva però l’attività intellettuale costruttiva. Ma che significa - per chi pensa, scrive, dipinge o mette in scena – “farsi sentire”? Può essere opportuno firmare un appello o partecipare a un girotondo, ma non è questo il punto: “gli scrittori infatti parlano e hanno sempre parlato con le loro opere e quanto più alto è stato il loro discorso poetico e di verità tanto più hanno inciso sugli aspetti sociali e politici della realtà alla quale appartenevano”. Benigni - per rischiare un’esemplificazione che Guglielmi non fa – imbocca il registro adatto quando contrasta la volgarità della televisione berlusconizzata recitando, negli spazi televisivi che gli si aprono, Platone, Dante e Voltaire. Moretti fa bene ad esigere che D’Alema dica “qualcosa di sinistra”, ma come artista a lui stesso spetta di dire qualcosa di reale e di bello: se destra o sinistra temono di restarne danneggiati, che si riposizionino. Come ha scritto di recente il drammaturgo spagnolo Alfonso Sastre – in un dialogo con la propria ombra non a caso intitolato La deriva degli intellettuali. A proposito di intellettuali e utopia (Datanews, Roma 2005) – “Goebbels sapeva a chi pensare quando diceva che appena sentiva la parola intellettuali metteva mano alla fondina della pistola”, ma non è meno pericoloso che “ci dicano, come Lenin ci disse, che gli intellettuali debbono stare nel Partito”.
Una terza indicazione la riprendo, nuovamente, dall’intervento di Ferroni. E’ necessario che gli intellettuali reimparino a “prendere di petto lo stato dolente del mondo”, a “farci vedere ciò che non riusciamo a vedere, farci capire ciò che non riusciamo a capire”. Ma è anche sufficiente? Se letteratura e saggistica serie stentano a incidere nel corso degli avvenimenti storici, non è soprattutto perché mancano lettori all’altezza? L’editoria è, fra tanto altro, un mercato. Dunque un ambito in cui la domanda condiziona l’offerta (almeno quanto l’inverso). Se scuola e università sfornano diplomati e laureati che non leggono se non sotto prescrizione a fini utilitaristici (perché gli stessi insegnanti, medi e universitari, hanno sempre meno tempo e voglia di dedicarsi alla lettura ‘gratuita’), se persino i quotidiani sono acquistati da una minoranza trascurabile di cittadini, a chi dovrebbero parlare eventuali intellettuali che superassero l’attuale “incapacità di guardare al senso del presente”? Ecco perché “la riflessione sullo stato depresso del mondo letterario italiano dovrebbe andare di pari passo con quella sullo stato depresso della nostra università, delle nostre scuole, dell’insieme dei processi di formazione e di comunicazione”.
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