“Repubblica – Palermo”
15.2.06
ANATOMIA DELL’UNIVERSITA’ NEL RICORDO DI UNO STORICO
Augusto Cavadi
Con comprensibile fierezza, l’ateneo palermitano celebra il bicentenario della sua fondazione. Si sa che, in queste circostanze, la commozione vela la memoria. O, per lo meno, seleziona i ricordi: cacciando, quanto più lontano possibile dalla coscienza, i meno gradevoli. Ma gli storici non possono permettersi – almeno intenzionalmente – il lusso della retorica: devono provare a restituire il passato per intero, con le sue luci e le sue ombre. Tanto più se si tratta di storici rigorosi, austeri per opzione professionale e forse anche – almeno ai primi approcci – per carattere, come il compianto Paolo Viola. Che – a parziale lenimento del sincero dispiacere provocato, in quanti l’avevamo conosciuto ed apprezzato, dalla dipartita prematura - ha affidato all’editore Donzelli, e alla compagna Titti Morello, il suo ultimo volume (Oligarchie. Una storia orale dell’Università di Palermo) da poche settimane in libreria.
Come si evince dall’Introduzione, il periodo cronologico considerato è il lungo segmento dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni: le fonti scritte dunque s’intrecciano con le testimonianze di protagonisti, più o meno illustri, ancora viventi. Anzi, è lo stesso ricercatore ad essere coinvolto nell’oggetto della ricerca, sì da guardare eventi e personaggi con uno sguardo “insieme esterno ed interno” (p. 9). Con quali risultati? Il sugo di questa storia non è certo particolarmente lusinghiero: “il carattere oligarchico si è mescolato a tratti di un individualismo sleale nei confronti dell’istituzione, e ha finito col danneggiare doppiamente l’ateneo stesso” (p. 6). Per essere più chiari: da una parte “il professore universitario palermitano , ma probabilmente italiano, quando indossa i panni accademici, ha riflessi conservatori di chiusura corporativa oligarchica e danneggia culturalmente l’ateneo”; dall’altra, se apre all’esterno “le porte della cittadella universitaria” (soprattutto alle forze politiche ed economiche), lo fa solo per rafforzare il proprio potere individuale e dunque senza remore nel subordinare e mortificare gli interessi di quella stessa istituzione da cui pure “trae il proprio prestigio”. In questi due secoli, o per lo meno nell’ ultimo sessantennio, si è andata dunque snodando la dialettica fra chiusura oligarchica della casta e apertura strumentale degli individui. Ne vogliamo qualche esempio? Tra i tanti riportati da Viola il lettore avvertirà soltanto l’imbarazzo della scelta.
Chiusura oligarchica ha significato, tra l’altro, meccanismi perversi di reclutamento del personale docente. I baroni hanno favorito, nelle fasi di cooptazione dei nuovi colleghi, figli, nipoti (e amanti): se non propri, almeno degli amici e degli amici degli amici. Anche dalle nostre parti è valso il principio di ripartizione delle cattedre vigente nel resto del Paese: una al mio candidato, una al tuo, la terza a chi la merita. Purtroppo più di una volta è capitato che le cattedre sono state solo due… Si è trattato solo di malcostume clientelare o non anche di paura nel dare spazio a personalità che avrebbero potuto fare ombra? Ricordo la descrizione che, molti anni fa, un docente palermitano forniva - con amara scanzonatura - ad un sociologo inglese: un cattedratico, per evitare concorrenti, sceglie come assistente un allievo un po’ meno intelligente; il quale, arrivato a sua volta in cattedra, ne sceglie un altro ancora un po’ meno acuto; e così via. Alla legittima curiosità dell’interlocutore (“Ma, allora, lungo il corso dei decenni, non si dovrebbe arrivare allo zero assoluto?”), il professore rispondeva in maniera logicamente impeccabile: “Così sarebbe se, dopo alcune generazioni, non si arrivasse ad un barone così poco perspicace da non accorgersi che il suo assistente è una persona più intelligente di lui, sì che il ciclo possa ricominciare daccapo”.
Apertura all’esterno in un’ottica d’interesse privato ha comportato, tra l’altro, una grande cautela nell’occuparsi di cosa è andato accadendo nel territorio. In un contesto notoriamente inquinato, ci si sarebbe aspettato dal più importante centro di cultura l’attento, coraggioso, spietato monitoraggio del sistema di potere mafioso nei suoi risvolti criminali, economico-finanziari, politico-amministrativi. Ma - sino alle stragi del ’92 - la produzione scientifica su questi fenomeni è stata (almeno quantitativamente) limitatissima. In Cose di cosa nostra Giovanni Falcone informava Marcelle Padovani del fatto, difficile a credersi, che un giovane palermitano potesse arrivare a laurearsi in giurisprudenza e a vincere un concorso in magistratura senza aver mai udito una sola ora di lezione sulla mafia.
Ma oggi come vanno le cose? Non credo si possano dare risposte generalizzanti. In alcuni istituti è possibile che i meritevoli trovino accoglienza e incoraggiamento, a prescindere dai cognomi familiari e dalle tessere di partito. In altri ambienti è notorio che la dittatura degli ordinari non ammette smagliature, al punto che – in nome di contrasti ideologici o solo temperamentali - ricercatori stimati a livello nazionale per le loro pubblicazioni non riescono ad ottenere la cattedra. Non mancano poi le situazioni in cui lo studente è fortemente sollecitato a spendere soldi per testi il cui pregio maggiore, se non esclusivo, è d’essere stato scritto dallo stesso insegnante che lo ha adottato. Storture, deformazioni, censure: mai gradevoli, ma particolarmente dolorose quando ascrivibili a direttori di dipartimento o presidi di facoltà che si dicono, e in altri contesti si dimostrano effettivamente, democratici e progressisti. Farne autocritica, pubblica o tacita purché operosa, sarebbe un modo conveniente di celebrare il plurisecolare anniversario.
Augusto Cavadi
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