“Janus”, Dicembre 2006, n. 24, pp. 119 - 124
Augusto Cavadi
Poco filosofo o troppo psicoterapeuta? Le tribolazioni di una nuova professione
Quando sono invitato a presentare in conversazioni pubbliche la consulenza filosofica mi preoccupo di accendere – preventivamente – una candela a San Giuseppe da Copertino (protettore degli studenti un po’ somari) per chiedergli una grazia: che all’incontro non si presentino né professori di filosofia né psicoterapeuti. O, in subordine, che - se proprio non possono restare a casa - siano affetti da momentanea ma decisa afonia. Poiché probabilmente qualcosa difetta in questi miei riti apotropaici, puntualmente mi espongo al tiro incrociato dei filosofi cattedratici che rimproverano ai consulenti filosofici di essere poco filosofi e degli psicoterapeuti che li rimproverano di esserlo troppo. Nei (per la verità sempre meno rari) casi in cui la stampa si occupa della nuova professione d’aiuto, lo fa con titoli ad effetto che sembrano calibrati a posta per gettare benzina sul fuoco: come il recente Psicologo addio, è l’ora del filosofo del paginone di “Repubblica” del 24 settembre 2006. Anch’io, allo scopo poco nobile di attirare qualche lettore e poter vendere alcune copie in più del mio libro sulla consulenza filosofica, ho aperto il primo capitolo con una dichiarazione di guerra: “Non so più dove mi è capitato di ascoltare: ‘I filosofi costruiscono i castelli per aria. I matti corrono ad abitarli. Ma poi sono gli psicoterapeuti che riscuotono l’affitto’. Ammesso che così fosse in passato, da qualche anno la situazione sta cambiando” [1].
Ma c’è davvero, in atto o per lo meno in potenza, questa competizione fra filosofi-consulenti e psicologi-terapeuti? La risposta della stragrande maggioranza di quanti ci occupiamo di consulenza filosofica sin dagli inizi degli anni Ottanta è unanime: neppure per sogno! (Anche perché - se competizione ci fosse sia pur onirica - gli psicanalisti, soprattutto freudiani, troverebbero ragioni fondate di preoccupazione…). Anzi, per quel poco che può servire una testimonianza autobiografica, le prime due persone che mi hanno spinto a capire che – senza saperlo – facevo da anni il consulente filosofico sono stati due psicoterapeuti. Il primo, palermitano, quando mi ha chiesto di incontrarci con una certa periodicità per essere aiutato a focalizzare meglio lo statuto epistemologico della psicanalisi: tema che, secondo lui (e non solo secondo lui), non rientra nell’ambito di competenza di uno psicanalista, proprio come la filosofia della matematica o la filosofia della biologia non rientrano nel curriculum formativo di un matematico o di un biologo ma sono affari della ‘filosofia della scienza’ (o epistemologia). Il secondo, torinese, quando ha convocato nel suo studio un po’ di filosofi da varie parti d’Italia confessando - con onestà intellettuale – che sempre più spesso i suoi pazienti gli sottoponevano problematiche esistenziali o etiche (per le quali egli non era professionalmente attrezzato) anziché emotive o relazionali (per le quali si era preparato nei decenni di studio precedenti).Se qualcuno fosse soddisfatto da questa prima risposta un po’ impressionistica, può saltare al contributo successivo della rivista che ha in mano. Altrimenti dovrà sobbarcarsi alla lettura di alcune argomentazioni un po’ più tecniche, proprio come ha dovuto sobbarcarsi alla fatica di formularle – anche per non scontentare troppo la tribù dei filosofi cui si intestardisce ad appartenere – l’autore dell’articolo. Il quale, per altro, scrive a nome del tutto personale e impegna altri colleghi solo per quelle citazioni che va estrapolando dai loro testi, ben sapendo che su ogni questione ci sono molte - e quasi sempre legittime – opinioni.
Affinità di approccio
Comincerei dall’esame di alcune affinità fra consulenza filosofica e psicoterapia: anche perché se non ci fossero non si spiegherebbe la preoccupazione, in alcuni filosofi e in molti psicologi, di marcare le differenze.a) Innanzitutto: sono entrambe relazioni d’aiuto nell’ambito di un’attività professionale in cui qualcuno offre, a chi ritiene di trarne giovamento e liberamente lo accoglie, un servizio (solitamente) remunerato (o direttamente dal ‘cliente’ o da un’istituzione pubblica o privata). b) In secondo luogo: entrambe presuppongono nell’operatore una capacità di ascolto articolata, dunque costituita da “riguardo, ritegno, assenza di giudizio e partecipazione”[2]. Alcune di queste caratteristiche non sono, nel concreto, facilmente abbinabili. Per esempio il distacco professionale esige la ‘messa fra parentesi’ dei propri giudizi morali (e, ancor più, dei propri pregiudizi sociali): ma, come ha ricordato Alice Miller[3], ciò non dovrebbe comportare freddezza e totale distacco emotivo .c) In terzo luogo: entrambe hanno a che fare, come tutte le professioni d’aiuto, non con ‘oggetti’ ma con ‘soggetti’. E ‘soggetti’ nel senso non aggettivale, etimologico e letterale (sub-jecti: sottoposti, gettati sotto qualcuno in posizione subordinata) bensì nell’accezione sostantivata moderna di interlocutori dotati di propria personalità, responsabilità e dignità. Per entrambe, dunque, il ‘testo’ fondamentale non è un evento episodico né tanto meno una regolarità costante di fenomeni, bensì il vissuto - ogni volta unico e irripetibile e incomparabile – di ciascun cliente.
Differenze di approccio
a) Per analizzare le specificità che differenziano consulenza filosofica da terapie psicologiche può essere istruttivo avviarsi proprio dall’ultimo dei tre punti di contatto identificati. Filosofo e psicoterapeuta – si è appena sottolineato - partono da un ascolto del visitatore che è tentativo di intus-legere la sua storia. Ma mentre lo psicologo cerca di cogliere e di decifrare nel racconto dell’altro lo ‘psicologico’ (sentimenti, emozioni, paure, speranze, desideri…), il filosofo cerca di coglierne e decifrarne il ‘filosofico’. Come c’è un problema sullo specifico della dimensione ‘psicologica’ rispetto a quella fisiologica, così c’è un problema sullo specifico della dimensione ‘filosofica’ rispetto a quella psicologica. E’ una tematica messa ben a fuoco da Rahn Lahav. A suo avviso, il consulente filosofico deve anche lui partire da “le azioni, le emozioni, le scelte, le speranze e i piani di ogni giorno”[4] del suo ospite: ma interpretandoli come “affermazioni’ su se stessi e sul mondo”[5]. Achenbach non si esprime in maniera molto diversa: “il percorso che la consulenza filosofica intraprende per un’utile chiarificazione del male vissuto soggettivamente non è in modo prioritario l’analisi del soggetto e delle sue difficoltà, ma l’analisi della cosa e di quelle difficoltà che essa ‘crea’ al soggetto”[6]. b) Se è chiara la differenza di angolazione nell’approccio con l’interlocutore (i filosofi direbbero: la differenza dell’oggetto ‘formale’ delle due discipline), si può facilmente evincere una differenza anche dal punto di vista, per così dire, della valutazione degli interventi: quelli psicoterapeutici vanno misurati col metro dell’efficacia, quelli filosofici sul metro della significatività [7]. Lahv spiega così: “Il successo a cui mira la consulenza filosofica (…) non consiste solo nell’aiutare a raggiungere l’autosoddisfazione o ad alleviare una particolare angoscia. E’ una meta molto più ambiziosa, vale a dire quella della filo-sofia: lo sviluppo della capacità dell’individuo di approfondire e allargare il suo approccio alla vita tramite un atteggiamento più critico, più ricco ed onnicomprensivo, cioè l’incremento di saggezza. Sotto questo aspetto il successo della consulenza filosofica è d’impatto molto maggiore di quello delle terapie che mirano al benessere psicologico dell’individuo. Se la consulenza filosofica aiuta gli individui a fare dei passi importanti in direzione della saggezza, allora è realmente un approccio potente. La mia conclusione è (…) che la filosofia è valida per l’individuo non solo come disciplina teorica accademica, ma come mezzo per la crescita e lo sviluppo personale”[8].Questo passaggio è cruciale: ma, proprio per questo, per focalizzarlo adeguatamente bisognerebbe riuscire a sintetizzare che cosa fanno - in concreto – un filosofo consulente ed un ospite consultante. Si potrebbe provare con un solo verbo: filosofano. Nessuno si prende cura dell’altro perché ciascuno si cura di capire meglio, con l’aiuto dell’altro, non quali emozioni sta vivendo in quel momento ma che cosa siano le emozioni in generale; non perché ha difficoltà ad amare e ad essere amato, ma cosa sia in sé l’amore; non come vincere la paura della morte, ma cosa sia la morte nella parabola dell’esistenza umana. E così via. Dunque “un consulente che voglia essere realmente ‘filosofico’ e aspiri a non confondersi con altri ‘professionisti’, dovrà muoversi con la sola intenzione esplicita di esaminare socraticamente il pensiero e la vita degli individui, spazzando via quanto umanamente possibile l’ignoranza, facendo chiarezza, favorendo l’arricchimento e la coerenza delle loro concezioni del mondo - pensate e vissute, esplicite e implicite – e cercando di incrementare la loro consapevolezza”[9]: tutto il resto che gli potrà capitare di provocare (maggiore sicurezza psicologica, conforto in situazioni di solitudine o di malattia), lo avrà dato in sovrappiù. Convergenza di approccioSe queste differenze d’identità sono reali, la consulenza filosofica – secondo l’icastica asserzione di Achenbach – non è un “una psicoterapia alternativa” quanto una “alternativa alle psicoterapie”[10]. Ciò posto e tenuto ben fermo, ci si può chiedere se queste due forme di relazioni di aiuto - in sé alternative – non possano esercitarsi in sinergia complementare. E, se ce lo chiediamo, la risposta - a mio avviso – non può che essere affermativa.Intanto per un ragione, per così dire, estrinseca o ‘oggettiva’: uno stesso soggetto può essere ‘paziente’ di uno psicoterapeuta e ‘consultante’ di un filosofo pratico. Anzi, in alcuni casi, mi sono guardato bene dal coinvolgere in discussioni filosofiche delicate delle persone che stessero ‘patendo’ delle sofferenze eccessive (per esempio, in un gruppo sull’accanimento terapeutico e l’eutanasia, una donna affetta da sclerosi multipla) se non avevo il conforto della con-presenza di uno psicoterapeuta di fiducia che potesse gestire eventuali reazioni emotive difficilmente controllabili da chi non è del mestiere. Più in generale, preferisco l’assetto di gruppo al rapporto duale e, nell’assetto di gruppo, considero estremamente rilevante la presenza di uno psicologo che vigili, anche solo silenziosamente, sulle dinamiche interpersonali e sia in grado, in caso di necessità, di intervenire espressamente a ricanalizzare l’emotività verso obiettivi condivisi (o si chini su eventuali ferite che possano aprirsi nel cuore di qualcuno dei ‘filosofanti’). Questo senza dimenticare - filosofi come Galimberti[11] e Rovatti[12] lo hanno autorevolmente ricordato di recente – che la doverosa attenzione alla competenza psicologica non può significare alimentare, nell’opinione pubblica e nei frequentatori degli studi di consulenza di ogni genere, il mito della terapia: ci sono casi in cui l’aiuto principale che il filosofo deve al suo visitatore è di liberarlo dall’illusione che, moltiplicando le relazioni d’aiuto, si possano eliminare dall’esperienza umana il dolore, il negativo, il tragico. L’israeliano Ran Lahv va oltre sostenendo anche delle ragioni intrinseche o ‘metodologiche’ per cui non è agevole districare l’intreccio fra i due approcci. In astratto, infatti, la distinzione è abbastanza semplice: ”La conoscenza dei processi psicologici nelle menti delle persone dev’essere basata su studi empirici (…). All’opposto, quando si traggono conclusioni etiche o si stabiliscono nessi concettuali ci si basa sulla pura riflessione. Così mentre uno psicoterapeuta deve essere attrezzato con la conoscenza basata sull’esperienza (empirica), la capacità cruciale di un consulente filosofico è il puro pensiero (non-basato-sull’esperienza)”. Ma, in concreto, “il grado in cui una data terapia o consulenza è filosofica o psicologica dovrebbe essere visto come una dimensione e non come una dicotomia”. Infatti non si dà, nell’effettività, né una terapia che sia “priva di ogni riferimento a implicazioni filosofiche” né una consulenza che sia “completamente priva di elementi di concezione psicologica” [13]. La differenza tra un filosofo teoretico e un filosofo consulente è proprio nell’atteggiamento intenzionale di quest’ultimo che decide di farsi prossimo di un non-filosofo: e come potrebbe una pratica filosofica di accompagnamento realizzarsi ad opera di un professionista del tutto privo di attrezzatura psicologica, sia connaturata che acquisita?
[1] Cavadi A., Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2003, p. 11.
[2] Achenbach G., La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 94.
[3] Ella parla infatti dello psicoterapeuta come “testimone empatico” in quasi tutti i suoi scritti, sino al recente La rivolta del corpo. I danni di un’educazione violenta, Cortina, Milano 2005, p. 135.
[4] Lahav R., Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004, p. 10.
[5] Ivi, p. 11. Egli denomina “principio dell’interpretazione della visione del mondo” - della weltanschauung di ogni soggetto – la convinzione che “la vita quotidiana, con i dilemmi e i problemi che essa comporta, diventa un potenziale oggetto del filosofare” (pp. 11 – 12).
[6] Achenbach G. , La consulenza, cit., p. 153. Nello stesso saggio l’autore si chiede: “E’ la cosa che favorisce i blocchi, o è il soggetto bloccato che ‘tempesta’ la cosa con le sue paure? Tanto la psicologia ci consiglia di risolvere il ‘caso’ nel senso del secondo modello, altrettanto è filosoficamente importante per me lasciarmi avvicinare dai timori vissuti alle cose temute per poter esaminare il significato di ‘cosa’ turba la mia anima” (p. 177).
[7] Cfr. Lahv R., Comprendere, cit., pp. 23 – 26.
[8] Ivi, pp. 103 – 104.
[9] Pollastri N., Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza filosofica e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, p. 199. Sino ad oggi uno dei libri più indicati per chi voglia farsi una panoramica abbastanza equilibrata e completa della storia della consulenza filosofica e di alcuni suoi nodi problematici irrisolti.
[10] Achenbach G., La consulenza, cit., p. 153.
[11] “La pratica filosofica (…) guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù” (Galimberti U., La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 26).
[12] “La filosofia rifiuta la cultura terapeutica e (…), nel suo piccolo, si assume il compito di smascherarla, denunciarla, combatterla. Significa che si prenderà innanzitutto cura di svellere l’idea di ‘malattia’ che va propagandosi, di farne vedere l’illusorietà ed il trucco, nonché le strategie di potere che la producono e ne traggono effetti di governo delle anime, come si esprimerebbe Michel Foucault” (Rovatti P. A., La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, Cortina, Milano 2006, pp. 20 – 21).
[13] Lahv R., Comprendere, cit., p. 21.