Repubblica – Palermo
17.12.05
NOTO E LA VERITA’ DEL CRISTIANESIMO
Don Vincenzo Noto – in un intervento dell’altro ieri - ha voluto sottolineare, con la solita acutezza, una problematica reale che si evidenzia anche dalle nostre parti, dopo essersi manifestata da decenni in aree multiculturali come gli Stati Uniti d’America e le grandi metropoli europee: si può mantenere la propria identità religiosa in una società pluralistica o, per evitare lo scoglio del fanatismo intollerante, ci si deve arenare nelle secche del relativismo qualunquistico? La risposta del presbitero monrealese non lascia spazio a dubbi: “È possibile per un cristiano cattolico concludere che la sua religione è la «vera» e, quindi, la presenza di altri culti e fedi lo può aiutare a vivere meglio i contenuti etici di un credo che ha non solo i crismi dell´attendibilità, ma la certezza della verità perché frutto della rivelazione divina”.
Una risposta del genere ha il pregio apprezzabile di affermare – con linguaggio accessibile anche ad un pubblico non particolarmente ferrato in teologia – la linea dottrinaria ufficiale dell’attuale magistero cattolico. Ma lo stesso lettore “medio” a cui si rivolge don Noto ha - mi permetterei di aggiungere sommessamente – il diritto di sapere che questo insegnamento ufficiale non è unanimemente condiviso all’interno della stessa chiesa cattolica né, ancor meno, dalla più ampia famiglia dei credenti cristiani (ortodossi, protestanti, anglicani…).
Esiste un sempre più nutrito filone di pensiero teologico e di prassi ecclesiale convinto, con K. Gibran Kahlil, che nessuno possa dire di aver colto ‘la’ verità, ma – nel migliore dei casi – ‘una’ verità. Che cosa propongono – in proposito- gli esponenti di questo orientamento culturale (tra cui Leonardo Boff, Hans Küng, Eugen Drewermann, p. Dupuis, don Carlo Molari, mons. Sartori, p. Alex Zanotelli, don Luigi Ciotti e tanti altri che sarebbe impossibile elencare dettagliatamente)? Diciamolo subito: non certo una poltiglia indifferenziata di credi, liturgie e organizzazioni ecclesiali. Il futuro religioso dell’umanità non sta – secondo questa prospettiva – in una “notte oscura in cui tutte le vacche sono nere”. La torre di Babele è crollata non perché si parlavano molte lingue (interpretazione ingenua tradizionale), ma perché si è tentato forzatamente di ridurle ad una sola (interpretazione esegetica moderna più aderente al testo biblico). Dunque il cristiano non solo può, ma deve, conservarsi fedele alla propria storia, ai propri libri sacri, ai propri modelli interpretativi ed etici. Esattamente come l’ebreo o l’islamico, l’induista o il buddista.
Il problema è un altro: questa fedeltà alla propria storia implica, necessariamente, la convinzione di un primato – anzi di un’esclusività originale e incomparabile – di tale tradizione rispetto alle altre modalità di approccio al divino? Quasi che il cristianesimo fosse l’unica via rivelata dall’alto e tutte altre religioni fossero sforzi (un tempo demonizzati, oggi tollerati) di salire verso Dio partendo dal basso? La risposta di quei pensatori – e in non pochi casi anche splendidi uomini di fede e di azione - a cui mi riferisco è, nel complesso, negativa. Essi ritengono che ogni religione sia frutto incrociato di ispirazione celeste, dall’alto, e di ricerca terrestre, dal basso: e che non si tratta di stilare impossibili graduatorie di eccellenza, ma di convivere nel rispetto delle differenze e nella condivisione dei valori comuni. Anzi, per dirla tutta, questa prospettiva teologica (oggi minoritaria fra le gerarchie ecclesiastiche cattoliche, ma – forse - non nel mondo cattolico né - certamente – nel mondo più ampiamente cristiano) ritiene che il discepolo di Gesù di Nazareth abbia da imparare (per correggere ed integrare il proprio modo di rapportarsi al Trascendente e al prossimo) non solo da ogni altra religione, ma anche da quei fratelli e da quelle sorelle in umanità che non si riconoscono in nessuna religione. Nella serietà e nel pudore del silenzio di tanti agnostici di fronte al Mistero, come nella generosità e nell’abnegazione di tanti atei che dedicano la propria vita per affermare la giustizia e la libertà, il cristiano è invitato a trovare preziosi elementi da meditare e da interiorizzare e da ritradurre nella pratica quotidiana. Senza complessi di inferiorità. Né di superiorità. Un po’ come aveva intravisto l’assemblea di tutti i vescovi cattolici quando, quarant’anni fa, a conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II, scriveva nella Gaudium et spes: “La Chiesa sente con gratitudine di ricevere vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione. Anzi, confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino a motivo della opposizione di quanti la avversano o la perseguitano”.
Augusto Cavadi
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