“Repubblica- Palermo” 24.12.05
GLI AUGURI SENZA LA RELIGIONE
Ammettiamolo: con l’arietta che tira, scambiarsi gli auguri sta diventando un problema. Pronunziamo “buon natale”? E rischiamo di fare la figura dei bigotti che danno per scontata, senza la minima esitazione, la condivisione unanime della fede cristiana in una società fortunatamente affollata di etero-credenti e di nulla-credenti. Evitiamo ogni accenno al “natale”? E rischiamo di autoemarginarci, artificiosamente ed un po’ snobisticamente, da un contesto sociale pullulante di presepi, nenie, alberi addobbati, barbuti e panciuti vecchiotti vestiti di rosso…Forse – in tali ambasce – può soccorrerci la rassicurazione di Freud alla signora in cerca di consigli su come comportarsi con i figli: “Stia tranquilla, si rilassi. Tanto sbaglierà in ogni caso”. Eppure, nel lungo periodo, si potrebbe tentare - ognuno per la sua parte – di divincolarsi da dilemmi così antipatici. Come insegna la storia, l’accentuazione trionfalistica di una religione (o di una dottrina politica di regime) provoca - per reazione uguale e contraria – una sana voglia di dissacrazione o, per lo meno, di secolarizzazione. Quando invece lo spazio pubblico è davvero pubblico, le tensioni si allentano: la piazza torna ad essere il luogo in cui ciascuno può essere sé stesso, senza dover imporre ad altri i propri simboli identitari. E senza temere di venirne privato. Un’utopia immaginare un modello di convivenza civile talmente laica che a dicembre ci si possa scambiare gli auguri di ‘buon natale’ come ad ottobre di ‘felice conclusione di ramadan”? A ben riflettere è quanto avviene già in altre ricorrenze: non mi pare che, quando ci si augura a vicenda ‘buon carnevale’, si intenda fare professione di neo-paganesimo militante…
Tutto questo, però, implica - come dire ? - un ridimensionamento complessivo della tematica dell’appartenenza confessionale. Che a questo raffreddamento dei fervori religiosi possa contribuire il mondo dei laici dovrebbe essere scontato (e dico ‘dovrebbe’ perché le cronache recenti registrano la diffusione del vezzo di alcuni intellettuali e politici di difendere le ragioni del cattolicesimo da posizioni atee o, per lo meno, agnostiche. Forse per calcoli di bottega, forse per raccattare un surrogato ideologico dell’etica conservatrice in esaurimento). Meno ovvio, ma non meno vero, è che allo stesso obiettivo possano contribuire anche i cristiani più autentici e avvertiti. Essi, infatti, sanno ormai da decenni che la ‘religione’ è un fatto storico, mondano, culturalmente connotato: dunque qualcosa di ambiguo e, comunque, di diverso dalla ‘fede’. Che è, invece, un atteggiamento personale, interiore, incatalogabile. Un’apertura di credito al mistero della vita, con le sue sorprese entusiasmanti e le sue prove angoscianti; una capacità di donazione senza l’attesa spasmodica della gratificazione sociale; una serietà, nel costruire mattone dopo mattone la casa comune della giustizia, tale da non sentirsi in obbligo di censurare o camuffare le rare occasioni di allegria, di godimento e di festa. Esegesi biblica e cristologia sistematica vanno sempre più scoprendo, con smarrimento per alcuni e con giubilo per altri, che Gesù il Nazareno non ha inteso fondare nessuna ‘religione’, quanto piuttosto testimoniare la sua fede sobria e profonda in un Padre comune che, maternamente, vorrebbe per tutti i suoi figli “il pane e le rose”. E che dunque non è detto che essere ‘religioso’ equivalga ad avere ‘fede’: anzi, come ha ricordato in questi ultimi mesi - a Palermo prima, a Cefalù dopo - il biblista cattolico p. Alberto Maggi, pare proprio che più si è ‘religiosi’ più si è lontani dal vangelo. Chi ha a cuore la faticosa coltivazione della fede correttamente intesa, non può che desiderare un abbassamento dei toni delle prediche e delle luci natalizie. E un più preciso e quotidiano e collettivo impegno perché si riduca la sofferenza, fisica e morale, di miliardi di innocenti. Solo in questo ipotetico clima di pudore, di raccoglimento, di rispetto per le prospettive altrui e di preoccupazione per gli impoveriti della storia, un cristiano potrebbe persino augurare - e sentirsi augurare – “buon natale”.
Augusto Cavadi