martedì 1 novembre 2005

DONNE E RELIGIONE


Repubblica – Palermo
1.11.05

LA SICILIANA CHE GUIDA I VALDESI DELL’ITALIA

Nel linguaggio comune, ‘cristiano’ e ‘cattolico’  si adoperano come sinonimi. Da mille anni, però, non è così. Sino all’undicesimo secolo, infatti, esisteva (a prescindere da esigui filoni ereticali) una sola chiesa cristiana: poi, da quando le chiese orientali greche e slave si sono staccate dal papa di Roma costituendo la confederazione ‘ortodossa’, si sono moltiplicate nel mondo decine di comunità cristiane, diverse dalla chiesa cattolica (e non di rado da essa duramente avversate). Per esempio le chiese valdesi e le metodiste che appartengono alla variegata famiglia del protestantesimo e , dal 1979, sono federate in un unico Patto d’integrazione.

Come è stato riportato dalla stampa (forse per gli aspetti folkloristici più che per interesse intrinseco verso l’evento), ad agosto il Sinodo, che si riunisce in rappresentanza dei 35.000 fedeli sparsi per il Paese, ha eletto come Moderatrice della Tavola – dunque come massimo esponente – la cinquantunenne Maria Bonafede. Di passaggio per poche ore a Palermo, l’abbiamo incontrata per una conversazione amichevole a tutto campo. A cominciare – ovviamente – dal motivo della visita in Sicilia:  “In quanto Moderatora, faccio parte del Comitato che sovrintende il Centro diaconale della Noce. Non potevo dunque mancare ad una delle poche riunioni annuali in cui si fa il punto su una delle sedi più attive e più prestigiose che noi valdo-metodisti gestiamo nel Mezzogiorno”. Come è noto, il Centro di via Evangelista Di Blasi è scuola elementare parificata (scelta anche da famiglie areligiose in quanto ritenuta più laica di tante altre statali: i programmi non prevedono l’insegnamento di nessuna religione), centro di accoglienza per immigrati extra-comunitari, foresteria per turisti e operatori sociali provenienti un po’ da tutto il mondo. Questo viaggio di lavoro è però anche un ritorno alle radici: “Mio padre era palermitano e anche mio nonno materno era siciliano. Sono nata a Milano, vivo con mio marito e mio figlio a Roma, ma quando leggo Sciascia o Bufalino mi sembra di riconoscere qualche venatura del mio carattere. La fede cristiana, infatti, mi spinge ad affrontare costruttivamente le sfide della storia, ma avverto anche – in sottofondo – una sorta di saggezza arcaica, mediterranea, che mi pressa in senso opposto: a non pretendere troppo e a saper accettare anche i dati immodificabili che ci condizionano”. Maria Bonafede riconosce di essere soltanto all’inizio nella conoscenza della realtà meridionale che, alla luce del nuovo incarico pastorale, diventa indifferibile:  “Tanto più – commenta aspirando l’ennesima sigaretta, con la tazzina di caffé in mano – che le nostre comunità nel Sud conservano qualcosa di pionieristico, di anticonformistico, che forse in altre zone si va perdendo. Nelle Valli valdesi in Piemonte, ad esempio, si nasce – per così dire – protestanti: tutti lo sono e, in un certo senso, non lo è nessuno. Qui vedo che è ancora un’opzione controcorrente, di minoranza: dunque una scelta più faticosa, ma anche più consapevole e più combattiva. Non è un caso che registriamo una notevole fioritura di vocazioni a farsi pastore – e pastora – proprio nel Meridione”. Perché oggi ci si dovrebbe convertire al vangelo? Molte persone – colte, psicologicamente equilibrate – pensano che sia un messaggio confortante: ma, appunto, anche troppo. Perché non dovrebbero accettare, con realismo, un orizzonte meno consolatorio?  “E’ quello che mi chiede con insistenza sempre più critica mio figlio, studente liceale diciassettenne. Il papa attuale pensa di poter far leva su dimostrazioni filosofiche e argomenti razionali convincenti. Noi protestanti riteniamo, invece, di non avere motivazioni stringenti. Viviamo, come tutte le altre creature, l’esperienza della sofferenza, del male, del nonsenso: solo che riteniamo di poter accogliere, in questo marasma caotico, una Parola di salvezza che apre alla speranza. Nulla di schiacciante per evidenza, però: solo una promessa debole, una parola crocifissa”. Proprio il giorno prima, la signora ha partecipato – in rappresentanza delle sue chiese – ad un importante incontro interconfessionale in Campidoglio con altri cristiani, ebrei e musulmani. “Le difficoltà non mancano in nessuno di questi fronti. Meno, forse, in questa fase, con gli ebrei. Con i cattolici va recuperato il clima, molto più favorevole, del post-concilio ecumenico celebrato a Roma negli anni Sessanta. Anche con gli islamici la strada che resta è ancora lunga: si ha l’impressione che troppo spesso alla nostra mano tesa si risponda, dall’altra parte, con una consapevolezza eccessiva dei propri pregi e dei propri meriti”. Anche a rischio di cadere nel banale, non posso sottrarmi alla curiosità di sapere cosa pensi del  femminismo: “Sappiamo che il movimento delle donne ha attraversato varie fasi: la contrapposizione al maschio in nome dell’uguaglianza, la segregazione fra donne, la più recente e ambigua stagione della differenza. Dico ambigua perché, con la scusa che siamo differenti, rischiamo di cristallizzare lo status quo: di accettare come ricchezza una disuguaglianza che, in effetti, penalizza noi donne. Abbiamo così assistito alla rinascita di tante espressioni della femminilità tradizionale che sembravano essere state spazzate via alla fine del XX secolo. Oggi, però, mi pare che un nuovo spirito critico si stia risvegliando nelle giovanissime. Non so se si tratta di una constatazione oggettiva o di un’illusione ottica. In ogni caso, il femminismo non è passato invano. Ancora all’inizio degli anni Sessanta, le nostre chiese discutevano se ammettere o meno le donne al ministero pastorale. La stessa recente elezione di una donna a presiedere la Tavola – è la prima volta che accade nella storia - sarebbe stata impensabile senza il movimento femminista”. La informo sul dibattito - che ha animato, circa due anni fa, le pagine palermitane di “Repubblica” – sulla insignificanza di molte prediche domenicali: “Devo subito precisare che, dall’esterno, mi è sembrato di notare in questi ultimi venti anni un notevole miglioramento qualitativo medio delle omelie nelle celebrazioni liturgiche cattoliche. Nella tradizione protestante, la preparazione della predica ha avuto da sempre un ruolo rilevantissimo: i maestri più anziani ci hanno sempre raccomandato di iniziare a studiare il brano da commentare sin dalla mattina del lunedì, ruminandolo per l’intera settimana. Ai colleghi cattolici raccomanderei dunque quello che raccomando a me stessa: di studiare seriamente la Bibbia. Non ci sono scorciatoie misticheggianti: bisogna informarsi, aggiornarsi, approfondire senza la presunzione di sapere tutto il necessario. Altrettanto importante, però, è lasciarsi sorprendere e colpire da quella pagina che si deve spiegare: se un versetto biblico non ha detto nulla  a te pastore, tu non sarai capace di comunicare nulla ai fedeli in ascolto. La gente percepisce subito la differenza fra chi ripete a pappagallo una lezione appena appresa e chi proclama a voce alta ciò che lo ha toccato nel profondo del cuore”. Una teologa così impegnata anche dal punto di vista del governo pastorale trova il tempo di pregare? “In alcune fasi della mia vita mi è stato più facile trovare del tempo da dedicare esplicitamente al dialogo con Dio. Ma in altre fasi vivo la preghiera non tanto come uno spazio speciale, quanto come una dimensione che accompagna – quasi  musica di sottofondo -  i vari momenti della giornata. Quando per esempio devo celebrare un funerale difficile – intendo in seguito alla morte di una bambino o di una madre che lascia un figlio handicappato – avverto dentro di me un groviglio di sentimenti: compassione, rabbia, impotenza. Ecco, evitare di rimuovere questo vortice, non provare pudore nel manifestarlo all’Eterno, chiedergli di non farci cadere nella disperazione, appigliarmi alla tenue promessa di una liberazione finale: in ciò consiste, molto spesso, il mio pregare”.

Augusto Cavadi

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