Centonove 29.10.04
Augusto Cavadi
Chiesa, due pesi e due misure
Anche con la migliore benevolenza del mondo, a leggere le notizie di questi giorni difficilmente si può evitare di chiedersi: “Ma la chiesa cattolica siciliana sta perdendo la bussola?”. Da una parte si legge che il direttore del coro della cattedrale di Palermo viene licenziato (non in senso giuridico: prestava gratuitamente la sua opera a titolo di volontariato) perché nelle alte sfere della gerarchia non si accetta il suo status di divorziato; dall’altra parte, però, il prete – reo confesso di abusi sessuali su minori, consumati approfittando del suo ruolo sacerdotale – viene riammesso, dopo la condanna concordata col Tribunale statale, all’esercizio delle sue precedenti funzioni.
La prima osservazione che sale in gola, dalla pancia, è che ci troviamo di fronte ad un fenomeno di schizofrenia istituzionale: detto in soldoni, che si usano due pesi e due misure. Rigore quasi spietato per chi non è riuscito a ‘salvare’ il matrimonio (senza neppure chiedersi se si tratti di un coniuge che ha proposto la separazione o che l’abbia subìta); comprensione e fiducia, quasi offensive per i ragazzi che avevano avuto il coraggio di denunziare il prete, nel secondo caso.
Già questa disparità di criteri sarebbe inquietante se si trattasse di due ‘reati’ equipollenti; addirittura insopportabile risulta, per una coscienza etica, se si considera che è stato trattato più duramente il caso meno grave (il coniuge divorziato) e con più elasticità il caso più grave (il pastore pedofilo).
Immagino facilmente l’obiezione cui va incontro chi esterna il proprio stupore amareggiato: ma a noi cosa interessa? Sono faccende interne ad una comunità religiosa: riguardano solo quanti vi si riconoscono. Peggio per chi ci resta, se vi appartiene da bambino; o per chi vi sia entrato da adulto.
L’obiezione ha un suo fondamento, ma accettarla sino in fondo porterebbe a quella totale incomunicabilità fra sfera ecclesiale e sfera civile che non giova alla maturazione né della chiesa né della società. Nella realtà, al contrario, la stragrande maggioranza dei cattolici non rinunzia all’esercizio del proprio senso critico né, d’altra parte, la stragrande maggioranza dei laici è disposta a rinunziare al diritto di critica su ciò che avviene all’interno della comunità cattolica o islamica o new age.
In forza del diritto-dovere di usare la propria testa, che dire di fronte a episodi incredibili come quelli registrati?
Diamo per scontato che ogni organizzazione ha diritto di darsi le norme che preferisce: purché, per onestà intellettuale, non tenti di giustificarle facendo appello indebitamente ad istanze ‘superiori’. Nel nostro caso: la chiesa cattolica può adottare i criteri di giudizio che preferisce (magari per commissionare, poi, a gruppi di sociologi e psicologi ricerche raffinate sul perché la gente si allontana sempre più dalle pratiche confessionali), purché lo faccia nel rispetto del vangelo di Cristo.
Ebbene, se – pur restando in un’ottica sostanzialmente tradizionale - accettiamo i risultati dell’esegesi, impariamo che Gesù avrebbe valutato esattamente in maniera opposta le due ‘debolezze’. Infatti egli, da una parte, è molto duro nei confronti di ogni genere di scandalo che coinvolga i minori: dichiara che la condizione di chi si mostrasse testardamente e intenzionalmente incurante nei loro confronti, sarebbe peggiore di uno cui “fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare” (Matteo, 18, 6). Di contro, non entra nel merito delle relazioni coniugali con atteggiamento di legislatore ma solo con l’intento di indicare una méta ideale. Come scrive il padre gesuita G. Lofhink (a p. 140 del suo fortunato Ora capisco la Bibbia, Dehoniane, Bologna 1982), “equiparando divorzio e adulterio, intende formulare una vera provocazione. Gesù vuole scuotere, smascherare, scoprire il vero contenuto della prassi giuridica sul divorzio. Tutto ciò però non s’accorda affatto con una legge, perché la legge non deve mai provocare se deve essere accettata. (…) . Il loghion sul divorzio non sarebbe in realtà una legge, ma una parola profetica” (G. Lofhink, p. 140). Insomma: coloro che non riescono a portare a termine una vicenda matrimoniale non sono rei da sottoporre ad alcun genere di giudizio ‘istituzionale’, ma persone che – per le ragioni più diverse – non sono riuscite a raggiungere una méta che pure si erano prefissi.
Già questa graduatoria di ‘peccati’ sarebbe più conforme ad una lettura ‘scientificamente’ accurata dei testi biblici. Ma, alla luce di alcune teologie avanzate come quella di Eugen Drewermann, si potrebbe fare ancora di più. Si potrebbe sognare una chiesa che muti radicalmente il proprio atteggiamento nei confronti dei ‘peccatori’ in carne ed ossa nella consapevolezza che il Maestro di Galilea è venuto non per condannare, ma per salvare; non per chi ritiene di essere a posto con la coscienza, ma per chi sa di essere imperfetto; non per premiare i ‘buoni’, ma per incoraggiare i ‘cattivi’; non per rallegrarsi con i ‘sani’, ma per guarire i ‘malati’. Una chiesa all’altezza del messaggio fondante non si presenterebbe come il circolo dei perfetti che dà i voti a minorenni impauriti: sarebbe piuttosto la comunità dei fratelli e delle sorelle che cercano insieme le vie della libertà e della solidarietà. E che in questo cammino si danno la mano nella consapevolezza che la crescita, personale e collettiva, non è sempre così lineare come appare alle menti superficiali. Una comunità, dunque, che esercita comprensione e sostegno reciproco, accettando sperimentazioni e fallimenti, con una sola avvertenza: che i piccoli siano preservati dallo ‘scandalo’. Mentre gli adulti tentano nuove vie, intrecciano le loro storie e faticano nella difficile arte dell’amore, la chiesa dovrebbe limitarsi a prendere soltanto le precauzioni organizzative necessarie ad evitare che sia coinvolta la fragile psicologia dei minori.
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