Repubblica – Palermo 8.6.04
Augusto Cavadi
Un compagno di carcere dimenticato
Quella volta che Berlusconi ci ha spiegato che il fascismo non è stato poi così duro come la cultura di sinistra ha voluto farci credere, dal momento che si è limitato “a mandare qualche dissidente in vacanza forzata”, il pensiero di molti italiani è andato ad Antonio Gramsci. Nessuno, o quasi, si è ricordato di Francesco Lo Sardo. Novello Carneade, anche di lui ci si potrebbe chiedere chi sia stato. E non sarebbe facile rispondere. Infatti, nonostante Pancrazio De Pasquale, presentando nel 1985 il suo Epistolario dal carcere (con le lettere ai familiari e i memoriali al Tribunale speciale fascista), lo abbia definito “la figura più luminosa della storia della Sicilia a cavallo dei due secoli, l’incarnazione più alta della lotta di emancipazione del popolo siciliano, l’espressione umana e politica più rilevante e spontanea di tutte le ansie, (…) della modestia e dell’orgoglio del movimento socialista e comunista siciliano”, non è facile rintracciarne traccia nelle bibliografie. Né, più in generale, nella memoria dei suoi conterranei. L’unica monografia dedicatagli (L’eroica vita di Francesco Lo Sardo) è uscita, come opuscolo anonimo (un “quaderno” del giornale “Il Riscatto”) a cura della Federazione P.C.I di Messina, nel 1956. Dopo – a parte l’accorato omaggio del nipote Francesco lo Sardo jr. Nessuno lo dimentichi, edito a Verona nel 1982, che prende a prestito, come titolo, l’epitaffio dettato per la sua tomba da Concetto Marchesi – il silenzio.
Come molti militanti di sinistra, da Marx in poi, esordisce come seminarista. Nato a Naso il 22 maggio del 1871, i suoi lo iscrivono al seminario vescovile di Patti da dove, deluso degli insegnamenti teologici, si trasferisce per studiare nelle scuole pubbliche di Messina. Qui s’inserisce nel Circolo anarchico-socialista e inizia la collaborazione con la rivista “Il Riscatto” diretto da Giovanni Noè. La ventata dei Fasci siciliani lo coinvolge: in quanto promotore del Primo Fascio Operaio Nasitano viene condannato al domicilio coatto nelle isole Tremiti. Al ritorno riesce a laurearsi in giurisprudenza e, dopo un nuovo arresto nel 1898, si dedica alla professione di avvocato e a costruirsi una famiglia. Si convince che l’anarchismo rischia di aggredire i terminali senza raggiungere il server o – per riprendere la sua colorita immagine per i contadini che si rivoltavano verso guardie ed esattori – di addentare la pietra che ci colpisce senza toccare la mano che l’ha lanciata: dunque si sposta su posizioni socialiste più organizzate. Il terremoto del 1908 lo priva del figlio unico di dodici anni, di amici e di compagni: davanti alla speculazione edilizia – capitanata dall’Arcivescovo Pajno che costruisce chiese e seminari senza preoccuparsi dell’edilizia popolare simile a “gabbie per canarini”– trova la forza di reagire allo sconforto, di riprendere la pubblicazione del “Riscatto”, di riorganizzare la sezione socialista e la locale Camera confederale del lavoro. Dopo la Prima guerra mondiale, guida le occupazioni contadine delle terre incolte e si espone alle aggressioni – fisiche, non solo verbali – delle camicie nere: intanto – siamo al 1921 - da una costola del Partito socialista si costituisce il Partito Comunista ed egli vi aderisce. Alle elezioni del 1924 Lo Sardo viene eletto deputato nazionale e in Parlamento stigmatizza la politica del Governo con una formula che, oggi, suona curiosamente attuale: “Cercate il pareggio del bilancio, assottigliando la razione di pane dei lavoratori ed aumentando il reddito delle classi ricche”. Anche a causa delle altre sue battaglie - contro il trasferimento dell’Università da Messina, contro la privatizzazione dell’Opedale “Piemonte” e soprattutto nelle aule dei tribunali contro i soprusi giudiziari – il regime fascista ne decreta la carcerazione. E’ l’8 novembre del 1926: da allora sino alla morte, il deputato-avvocato sarà trascinato da una prigione all’altra per tutta la Penisola (Messina, Catania, Roma, Sassari, Oneglia, Turi, Napoli). La privazione della carta e della penna riduce le sue possibilità di lavoro: il peggioramento delle condizioni di salute fa il resto. A chi gli fa ventilare la possibilità di chiedere la grazia, risponde con fierezza: “E’ inutile inginocchiarsi ai tiranni a meno che non si voglia perdere ogni dignità ed amor proprio; ed a ciò non voglio arrivare, preferirei la morte onorata all’avvilimento che mi facesse trascinare, magari mille anni, in una vita che non potrebbe riuscirmi che odiosa”. Anche un illustre compagno di prigionia, Antonio Gramsci, gli consiglia di firmare: “Ti resta poco” –gli disse – “e poi hai dato tutto al partito”. Ma la sua risposta non muta: “Hanno voluto la carne e si prenderanno anche le ossa. Io non firmo” (cfr. Umberto Clementi in Gramsci vivo - Nelle testimonianze dei suoi contemporanei, a cura di Mimma Paulesu Quercioli, Feltrinelli, 1977) . Soffriva di asma, di nefrite, di enterocolite e si limita a chiedere di essere curato chirurgicamente, ma la risposta burocratica tarda ad arrivare: il “modesto soldato dell’idea” (come amava autodefinirsi), il “san Francesco del comunismo” (come amavano definirlo alcuni compagni di carcere), si spegne fra le mura di Poggioreale il 30 maggio del 1931. In una delle ultime lettere - al fratello che gli aveva attribuito, un po’ retoricamente, del “coraggio leonino” – obietta: “Ho avuto quel modesto coraggio umano necessario per adempiere ai miei doveri di uomo verso la mia donna, verso la mia famiglia, verso la società e la mia fede, superando le difficoltà che dalla natura e dagli uomini mi si opponevano, e resistendo ad esse con coraggio”.
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