venerdì 31 dicembre 2004

GLI AUGURI DI FINE ANNO


“Repubblica – Palermo” 31.12.04

Augusto Cavadi


Non sprechiamo tempo, la partita è aperta 

In questi giorni – e in queste ore in particolare –  è tutto un intreccio di auguri. Le formule variano, i mezzi tecnici pure, ma la sostanza resta: che il 2005 sia migliore dell’anno che si chiude. Dopo l’imbarazzo del natale (non si sa mai come possa reagire l’interlocutore islamico o induista o ateo), si allentano le precauzioni: sembra il momento dell’augurio più laico, più universale, più condiviso.

Se consideriamo questi scambi come segni di buona educazione – o, nel migliore dei casi, di attenzione alla condizione altrui – non c’è problema. E’ un po’ come quando chiediamo all’altro come vada la vita: un gesto di cortesia che verrebbe rovinato da una risposta sincera e dettagliata, con l’elenco completo delle disgrazie personali e collettive, che andasse al di là di un “tutto bene, grazie”.

Ma se per caso ci soffermassimo a pesare le parole, intendendo rintracciare in ciascuna il significato proprio e profondo, si aprirebbero interrogativi spaesanti. Già: a ben rifletterci, che senso ha l’augurio di un anno migliore?

Se avessero ragione quanti vedono nella storia dell’umanità una ineluttabile degradazione entropica, un processo necessario e inarrestabile verso il freddo e il silenzio del nulla, l’augurio di capodanno suonerebbe beffardo o patetico. Per la cultura nichilista – che non è la  del nostro tempo, ma che certo ne rappresenta una fetta rilevante – “niente di nuovo sotto il sole”. Come è scritto in una pagina della Bibbia che sgomenta (non è un caso se nelle chiese si tende a non citarla), “il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana: gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. (…) C’è forse qualcosa di cui si possa dire: ‘Guarda, questo è una novità?’. Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto” (Qoèlet,1, 10). Nietzsche ne ha ripreso il messaggio al tramonto del XIX secolo: “Tutto va, tutto ritorna; la ruota dell’esistenza gira eternamente. Tutto muore, tutto rifiorisce…”. In questa prospettiva, tanto radicata nella mentalità anche di molti siciliani che non hanno mai aperto né Antico Testamento né Nietzsche, la partita è stata decisa già in anticipo, a tavolino: possiamo recitare soltanto un copione scritto prima – e senza – di noi. L’unica libertà possibile, direbbero gli Stoici greci o il moderno Spinoza, è acconsentire alla necessità del fato, aderire alla legge ineluttabile del destino, accettare con animo rassegnato ciò che non ci è dato di evitare.

Né l’augurio di capodanno ha molto più senso in una prospettiva – in un certo senso opposta, ma non meno diffusa della precedente – lineare, ‘progressista’, ottimistica, secondo la quale il nuovo è, per definizione, migliore dell’ antico e il domani non può che essere, per principio, più gratificante dell’oggi. Se veramente fosse così, se veramente la storia si sviluppasse come evoluzione necessaria, continua, inarrestabile, non sarebbe ogni espressione augurale superflua? Non è molto logico ‘auspicare’ che, per un nostro interlocutore, l’estate subentri alla primavera o l’alba alla notte stellata. Le rivoluzioni, come le eclissi di sole, non si sperano: si prevedono. Le tre grandi culture a cui si sono formati i nostri maestri (idealistica, positivistica e marxista) hanno alimentato questa immensa illusione, preparando – di delusione in delusione – la strada alla disperazione attuale.

Forse, allora, scambiarsi l’auspicio di un anno migliore implica una diversa interpretazione della storia: rappresentata non più come il serpente che si morde la coda né come una locomotiva che sfrecci di trionfo in trionfo, ma – se mai – come una linea spezzata, con alti e bassi, slanci e cadute, anticipi e regressioni. Una storia in cui niente è impossibile a priori, né di positivo né di negativo, perché momento per momento tutto dipende dall’intersezione di miliardi di libertà finite. Una storia che può sorprendere, in meglio o in peggio, perché nessuna legge intrinseca e aprioristica la determina unidirezionalmente. La stessa Trascendenza, se c’è, non può – o non vuole -  forzare la volontà delle creature. Davvero, per dirla con De Gregori, “la storia siamo noi”. Non perché assolutamente liberi, ma perché influenzati da molteplici fattori  senza essere del tutto annichiliti, ridotti  a rotelle di un meccanismo anonimo e implacabile. 

Questa prospettiva è affascinante, ma anche scomoda. L’anno, che si apre senza il nostro ‘permesso’, non si chiuderà senza il nostro concorso. La nostra vita personale, come la situazione in Sicilia o nel mondo, dipenderà anche da quel poco che ciascuno di noi avrà saputo costruire. Per quanto condizionata, la nostra libertà permane: e siamo responsabili di ciò che facciamo come di ciò che tralasciamo o rinviamo a data da destinarsi. Solo perché la partita è aperta, ha senso scambiarci gli auguri: non dunque invito al fatalismo, ma appello alle risorse – inesplorate – che giacciono, inutilizzate,  nella storia del nostro popolo e, in ultima analisi, nel cuore di ciascuno di noi. Non riesco a immaginare, per me e per la città, augurio più vero: che nessuno sprechi il tempo, prezioso ma non inesauribile, che gli è concesso. Sulla facciata del Palazzo delle Aquile, proprio sotto l’orologio che segna il lento scorrere delle ore, è incisa la più trascurata delle avvertenze: Pereunt et imputantur. Sì, passano: e di ciascuna dovremo rendere conto. Che ci si aiuti a raccogliere gli appelli della storia affinché, insieme, si possa “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato”. Il futuro ci è dato come dono, ma anche come compito: che nessuno abbia a pagare l’ingratitudine nei confronti della Vita col fallimento della propria esistenza.

martedì 28 dicembre 2004

NUMERI, STATISTICHE E FELICITA’


“Repubblica – Palermo” 28.12.04

Augusto Cavadi

LA QUALITA’ DELLA VITA E LE CITTA’ DELL’ISOLA

Puntuali come l’epidemia influenzale, ancora una volta le graduatorie del “Sole-24 ore” sulla qualità della vita nelle province italiane. Dunque, ancora una volta, perplessità e polemiche sulle posizioni molto basse occupate dalle città siciliane. Ma ogni botta e risposta in proposito si rivela, ad una considerazione un po’ più attenta, inconsistente. Non ha senso per chi governa una determinata città (per esempio Palermo) strumentalizzare i dati per glorificare il proprio operato: se si passa dal 100mo al 96mo posto, infatti, può significare non che la città sia stata meglio amministrata nell’ultimo anno, ma che altre quattro siano state amministrate (magari da giunte dello stesso colore politico) ancor peggio. Non ha senso neppure per l’opposizione utilizzare i dati per attaccare chi governa: si tratta infatti del punto di arrivo di storie decennali, forse centenarie, in cui non mancano responsabilità di amministrazioni del proprio stesso schieramento. E non hanno ragione neppure i qualunquisti a ridersela beatamente osservando che, destra o sinistra, le gestioni non mutano le situazioni effettive: perché non è scritto da nessuna parte che un sindaco e i suoi assessori abbiano, nel bene e nel male, tale incidenza da azzerare le responsabilità sociali quotidiane dei burocrati, dei vigili urbani, degli automobilisti, degli spazzini, dei medici e dei bancari, insomma dei cittadini. Se Messina o Agrigento ristagnano nelle parti basse delle classifiche, ciò dipende prima di tutto ed essenzialmente da messinesi ed agrigentini.

Proviamo dunque - andando oltre le dichiarazioni più o meno brillanti e opportuniste – a chiarire  qualche aspetto teorico non del tutto irrilevante.

L’idea fondamentale (suggerita in varie occasioni da esperti del settore) è che la nozione di ‘qualità della vita’ sia più diffusa che intelligibile. Non corrisponde, evidentemente, a nessun oggetto fisico o fatto storico: è dunque una nozione comoda, forse necessaria, ma costruita abbastanza arbitrariamente dagli studiosi. E’ dunque soggetta a modifiche continue secondo i punti di vista, le zone geografiche, le epoche storiche. Poiché viene formulata con abbondanza di tabelle numeriche, percentuali e medie aritmetiche, dà l’impressione di vantare una ‘scientificità’ molto più solida – e incontestabile – di quanto in effetti non le sarebbe lecito.

Se proviamo a capire meglio  le ragioni di questa opinabilità – si potrebbe dire di questa problematicità intrinseca - troviamo almeno tre ragioni. La prima è legata proprio alla sua veste matematica: poiché la qualità della vita si stabilisce analizzando 36 settori (sanità, trasporti, servizi sociali…) mediante  50 indicatori per ogni settore, nessuna indagine statistica può compiere  il miracolo di trasformare migliaia di dati quantitativi in un’idea qualitativa. Se faccio la somma di ciò che mi viene offerto in una crociera o in un villaggio turistico (aria condizionata, cucina raffinata, giochi di animazione…) in nessun modo posso ricavare – come risultato conclusivo – il grado di piacevolezza della vacanza in questione.

Ma poi – e siamo ad una seconda considerazione – chi stabilisce quali indicatori privilegiare? In una scuola è più importante che i certificati ti siano consegnati a vista o che gli insegnanti ti accolgano in aula con un sorriso? E’ un po’ come per il paniere dell’inflazione: uno potrebbe insistere per  includervi la benzina, un altro che cammina in bicicletta - ma è appassionato di cinema - i dvd.

Come se ciò non bastasse, va considerata ancora una terza ragione per cui le misurazioni in questo ambito risultano non ‘oggettive’ ma, al massimo, ‘intersoggettive’: la qualità della vita dipende tanto dalle strutture e dai servizi, quanto dalla mia percezione soggettiva degli stessi. L’assistenza sanitaria offerta dall’Ospedale civico di Palermo non è percepita, e valutata, esattamente allo stesso modo dal turista svizzero e dall’immigrato ghanese. Vivere a venti metri dal mercato di Ballarò, dai suoi colori e dal suo vociare, è considerato da alcuni un sogno, da altri un incubo. Abitare a Bolzano in un condominio silenzioso, dove non si viene mai disturbati dal volume troppo alto di una radio o dal tono eccessivo della voce dei vicini che si scambiano il saluto, può rappresentare un privilegio come costituire un incentivo al suicidio.

Se queste rapide osservazioni hanno senso, si capisce perché le graduatorie statistiche devono essere lette con molta precauzione: soprattutto per evitare di accettare dogmaticamente che il modello di vita (occidentale, produttivista, efficentista…) adottato da un determinato staff di tecnici venga, surrettiziamente, spacciato per universalmente condiviso. Tuttavia sarebbe scorretto capovolgere la frittata, approfittare di queste riserve epistemologiche per annacquare le differenze fra Nord e Sud. Anche per la qualità della vita si potrebbe ripetere quanto asserito da qualcuno per la qualità in generale: “Non la sappiamo definire, ma quando l’incontriamo la riconosciamo”.  Può darsi che - pur con minori opportunità di lavoro fuori casa, di partecipazione politica e di attività sportive -  le donne dell’entroterra trapanese, direttamente interpellate, ritengano di non vivere peggio di altre concittadine toscane o umbre: ma va soppesato il rilievo di Heidegger su quella povertà che consiste nell’incapacità di  percepire la mancanza come mancanza. I limiti della statistica non possono dunque diventare l’alibi del sottosviluppo. La gioia di vivere personale non è strettamente correlata all’efficienza delle amministrazioni: ma non ne è neppure del tutto indipendente. Nessuno chiede ai politici di assicurare la felicità dei cittadini, ci basterebbe che non la rovinassero con la corruzione o l’inettitudine.

venerdì 24 dicembre 2004

PACIFISMO


“Centonove”, 24.12.04

Augusto Cavadi 

Lanza del Vasto, attualità di un messaggio nonviolento 

Ancora recentemente, una persona di grande levatura intellettuale come Rossana Rossanda confessava – su “Repubblica” – la sua distanza dalla nonviolenza: come si fa a offrire l’altra guancia ai poteri forti che dominano la scena mondiale? Nell’immaginario collettivo, il metodo gandhiano è proprio questa impossibile scommessa di chi oppone alla forza dei forti la debolezza dei deboli. Ma era questa la proposta della “Grande anima”? Per rispondere con fondatezza, può essere interessante conoscere la riattualizzazione che di quella proposta ha fatto un italiano, figlio di un siciliano e di una belga, morto  - ottantenne – nel 1981. A lui, Giovanni Giuseppe Lanza del Vasto, la Sezione S. Luigi della Facoltà teologica di Napoli ha dedicato – in collaborazione con l’Istituto italiano di studi filosofici -  un seminario di studio di cui sono stati in questi mesi pubblicati gli Atti (AA. VV., Tra Cristo e Gandhi. L’insegnamento di Lanza del Vasto alle radici della nonviolenza, a cura di D. Abignente e S. Tanzarella, Edizioni San Paolo), recentemente presentati a Palermo al Parco letterario “Tomasi di Lampedusa”. Studiosi di varia provenienza – geografica e culturale – ne lumeggiano le varie facce: l’esegeta biblico, l’attivista pacifista, il cultore di spiritualità induista, il polemista, lo scrittore, l’organizzatore di istituzioni e di iniziative.

Questa multiforme personalità è celebre non solo per essere stato discepolo di Gandhi ma anche per aver importato in Europa il suo messaggio attraverso la fondazione del movimento “Comunità dell’Arca”: anche in Sicilia esso conta seguaci ed un gruppetto di palermitani sta costruendo, in cooperazione con una coppia di Catania,  una struttura nelle campagne di Belpasso che sia, ad un tempo, luogo di spiritualità, di confronto interculturale e di imprenditoria agricolo- artigianale .Le tragedie che stiamo vivendo – e il film Fahrenheit 9/11 , riportando storie di soldati americani morti in Iraq, mostra quanto facilmente chi gioca da carnefice può ritrovarsi nella scomoda posizione della vittima – inducono a soffermarsi, in particolare, su alcuni passaggi degli interventi raccolti nel libro a più mani. Prima di tutto sul saggio di Michelguglielmo Torri dedicato al Mahatma Gandhi, “un santo come uomo politico” (pp. 17 – 53): in esso, infatti, si dimostra – documenti alla mano – che l’originalità del leader indiano è consistita proprio nella capacità di far diventare storicamente operativa una strategia filosofico - spirituale. Egli è stato non solo eticamente ammirevole, ma anche politicamente efficace: non solo ha dato “un apporto molto importante al raggiungimento dell’indipendenza” (p. 35) del suo Paese dal dominio inglese, ma è riuscito a costruire e a gestire “un partito di massa di dimensioni panindiane” (p. 37).  Nella stessa linea di concretezza si è mosso il discepolo Lanza del Vasto, di cui Sergio Tanzarella evoca le tante battaglie  - pacifiche ma non per questo velleitarie – combattute contro l’occupazione francese dell’Algeria e per la conversione della stessa Chiesa cattolica alle ragioni della pace mondiale. Quando ministri socialisti come Mitterand rilasciavano dichiarazioni incredibili sulla bocca di politici di sinistra (“L’Algeria è la Francia. Dalle Fiandre al Congo, una sola legge, una sola nazione, un solo parlamento. Questa è la nostra volontà, la sola negoziazione possibile è la guerra”), il profeta disarmato obiettava: “L’atrocità di questa guerra dipende dalle due grandi bugie che ne hanno, poi, in seguito, generato altre. La prima bugia è che l’Algeria è la Francia, la seconda è che la guerra di Algeria è una pacificazione” (cfr . pp. 173 – 181). Allora, come adesso, una guerra “senza nome”  - perché, ipocritamente, si preferisce definirla altrimenti – provocò attentati terroristici contro le forze d’occupazione. Lanza del Vasto prende posizione con un duplice appello (sostenuto da digiuno pubblico a sola acqua): uno “alla coscienza dei francesi”, l’altro “ai capi religiosi dell’Islam e ai capi del Fronte di liberazione nazionale di Algeria”. In uno dei due appelli, dopo aver stigmatizzato il fatto che l’esercito di uno Stato democratico  facesse subire ad altri le stesse atrocità che si erano subite dalla Gestapo e dalle SS quindici anni prima, egli osserva: “Si dirà: anche i nostri nemici torturano e mutilano. Lo sappiamo. Non approviamo i loro crimini più di quanto approviamo i nostri, però ripetiamo: I torti altrui non ci giustificano. Del resto l’atrocità non castiga l’atrocità e non mette un termine ad essa: la provoca e la fa raddoppiare” (cfr. p. 203). Se questa saggezza circolasse di più nell’opinione pubblica occidentale, qualche schizzo potrebbe arrivare anche in alto: là dove governanti troppo indaffarati in questioni d’interesse non sempre generale decidono sulla vita e sulla morte di migliaia di innocenti.

venerdì 17 dicembre 2004

PATRIOTTISMO E CONTRADDIZIONI


“Centonove”, 17.12.04

Augusto Cavadi 

GUERRA, CANTA CHE TI PASSA 

In queste settimane, passando per centinaia di classi siciliane, i bidelli consegnano agli insegnanti l’ultima circolare dell’Assessore regionale. I giornali vi hanno accennato, ma solo leggendola con i propri occhi (è in bella mostra nel sito ufficiale www.regione.sicilia.it/beniculturali/pi) ci si può rendere conto della stagione da incubo che stiamo attraversando: “Il 12 novembre scorso  è stato celebrato l’anniversario dei caduti di Nassirya. (…) In un momento così tormentato in cui il terrorismo è divenuto una sorta di nuova guerra mondiale con effetti indistinti su tutta la popolazione, compresi donne, bambini e anziani, avverto la necessità di sottolineare che la scuola, più che mai, deve essere vissuta dai nostri ragazzi come centro della cultura e della vita.(…)  Recuperare il significato di alcuni simboli quali l’Inno di Mameli e la bandiera italiana, che contraddistinguono la nostra identità nazionale, non ha il significato della vuota retorica. Al contrario ciò si traduce per i ragazzi in una opportunità per recuperare la nostra tradizione, intesa come storia attraverso cui è possibile cogliere l’evoluzione dei valori, su cui si fonda la nostra cultura e la nostra identità. (…) Al fine di non rendere vane queste idealità  e di non disperdere la memoria della  recente visita  del nostro Presidente della Repubblica, mi auguro che i docenti delle scuole elementari e medie inferiori della Regione Siciliana vogliano favorire, attraverso la pratica del canto,  la  conoscenza  e la diffusione dell’Inno di Mameli, che è espressione alta dell’amore verso il nostro Paese”.
Alcuni insegnanti abboccano all’amo perché  gli si scalda il cuore al ricordo di quando erano piccoli e i loro maestri, stentando ad uscire davvero dal clima del regime in cui erano stati formati, li schieravano in palestra (magari con l’ausilio di qualche sano scappellotto) allineati e coperti. Ma altri insegnanti si guardano stupefatti.Devono spiegare ai bambini che il terrorismo è brutto e cattivo (e lo è) senza accennare al terrore esercitato da Stati ricchi che scatenano le guerre contro Stati che nulla hanno a che fare col terrorismo? Di essere fieri di appartenere a uno Stato che legittima e supporta l’uso di  “armi di distruzione di massa” contro  regimi accusati, a torto, di esserne detentori? Di dover cantare un Inno che, nel corso delle ultime due guerre mondiali,  ha accompagnato, alla morte (altrui e propria) milioni di concittadini mandati al macello da governi stupidi e immorali? Di dover cercare la loro identità civica in un pezzo di stoffa tricolore che sventola beffarda ai balconi di amministrazioni colluse e inefficienti; di istituti scolastici ignari delle norme di sicurezza, di igiene e di benessere; di ospedali pubblici degradati e degradanti per i malati che sono costretti al ricovero? Di dover essere orgogliosi di uno Stato che incoraggia gli evasori fiscali, premia i costruttori di ville abusive, alza la voce contro le trasgressioni dei miserabili per distrarre l’attenzione dai condoni per i potenti?  Di dover cantare in modo che gli passi anche solo la voglia incipiente di chiedere l’effettiva attuazione del diritto allo studio per i capaci e meritevoli, pur se economicamente sfavoriti? Tutto questo – per altro – senza un minimo accenno alla realtà effettiva della maggior parte delle scuole elementari e medie di città come Palermo o  Catania o Mazara del Vallo dove il multiculturalismo, il meticciato, il festival dei colori delle pelli e dei suoni delle lingue sono, per fortuna, un dato di fatto consistente e irreversibile. Dunque senza neppure il più vago sospetto che coltivare l’identità nazionale ha senso solo come presupposto e ponte verso la coscienza di essere cittadino europeo e, in ultima e decisiva istanza, cittadino del mondo. Sarà vero, come è stato autorevolmente sostenuto, che le tragedie della storia tendono a ripetersi e che la seconda volta hanno i caratteri della farsa. Ma qualcosa, in questo caso, ci impedisce di riderne.

venerdì 3 dicembre 2004

IL PACIFISTA SCHIRO’ D’AGATI


Centonove 3.12.04


AUGUSTO   CAVADI 

Omaggio a Lucio, il Luther King della Sicilia 

E’ arrivato nelle librerie l’ultimo libro di Augusto Cavadi (Gente bella. Volti e storie da non dimenticare con Una lettera di Maria d’Asaro a Peppino Impastato, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005, pp. 199, euro 15,00). Nel volume l’autore raccoglie sia interviste a personaggi contemporanei (come Pietro Barcellona, Franco Cassano, Luigi Lombardi Vallauri, Simona Mafai, don Vincenzo Sorce) sia brevi profili di siciliani illustri ormai scomparsi (come Giorgio La Pira, Peppino Impastato, Francesco Lo Sardo). Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo il capitolo Il Martin Luther King della Sicilia dedicato a Lucio Schirò D’Agati  (pp. 159 – 167). 



Un lottatore disarmato 

I difficili inizi

Nel nostro Paese  - aduso, secondo la felice formula di Ennio Flaiano, a “correre in aiuto del vincitore” – le minoranze non hanno mai avuto vita facile. Essere socialista ed essere protestante, a cavallo fra il XIX ed il XX secolo, significava trovarsi due volte in minoranza: dunque, condannarsi ad una vita doppiamente difficile. E tale, infatti, è stata l’esistenza di uno di quei tanti concittadini straordinari di cui  - eccezion fatta per qualche congiunto – perdiamo, talora definitivamente, la memoria. Lucio Schirò D’Agati nacque ad Altofonte, a pochi chilometri da Palermo, il 18 marzo 1877, ma il precoce decesso della madre e il carattere riservato della seconda moglie del genitore non contribuirono a rallegrarne i primi anni: “la mia infanzia tramontò senza che io avessi un bacio, neppure dal padre che subiva il pregiudizio che i figli si baciano quando dormono” (così lui stesso in una pagina di diario ripresa dalla figlia Miriam in Un lottatore senz’armi: mio padre Lucio Schirò D’Agati, Zephyro, Milano 2003, p. 16). Si vanno intanto organizzando i “Fasci siciliani”: Lucio ha solo 15 anni ma, “preso dall’eloquenza di Nicola Barbato, dottore” (ivi, p. 16), aderisce al Movimento di Riscossa Popolare e, per evitare la repressione poliziesca, è costretto – come De Felice, Verro e lo stesso Barbato – a fuggire: si imbosca in una salsamenteria dove svolge le funzioni di garzone. I cinque anni di servizio militare presso la Guardia di Finanza segnano una svolta positiva: conosce nuovi amici, può studiare, ritrova – dopo aver perso la fede cattolica familiare - una prospettiva religiosa nel mondo protestante prima a lui sconosciuto e incontra Consiglia, la donna che lo sposerà e lo accompagnerà per oltre un cinquantennio, sino a quando lo lascerà vedovo e addolorato,  “nonostante tanti figli attorno” (p. 54).

Gli esordi, in Puglia,  come predicatore dei Metodisti (confessione cristiana fondata nel Settecento dall’inglese John Wesley) non furono proprio dei più incoraggianti. “Il 14 luglio 1901  - racconta egli stesso – alcuni conoscenti mi invitarono (…) per una conferenza. Lo seppero i preti. Sobillarono la plebaglia, mi assalirono con urli, insulti, minacce e fuore collettivo. Io avevo depositato la mia borsa nell’albergo, ma l’albergatore fi costretto a rimandarmela non certo senza rammarico. Nell’albergo non c’era posto per me! I Carabinieri non intervenivano. La plebaglia mi sospingeva verso la campagna. Un sacerdote che, mi dissero, possedeva la laurea in Medicina e Chirurgia, parroco, arciprete, mi mandò una sfida per l’indomani. Risposi: ‘Domani alle otto sarò a sua disposizione’. Urla bestiali della plebaglia che gridava: ‘Ma domani sarai vivo?’. L’aggressione si fece più tremenda, fui circondato ed esposto a gravi minacce; qualche sasso volò tra la mischia…” (p. 20). L’indomani, comunque, all’appuntamento il prete non si fa trovare: “era andato ai bagni con una comitiva sghignazzante per la prodezza della sera precedente. Fu però chiamato e venne accompagnato dal medico condotto. Il prete disse: ‘Parliamo dentro chè la folla non può capire’. Cominciò la discussione sul Decalogo di Mosé contro le sculture. Il prete aveva studiato Medicina, non Teologia. Io ero ignorante di Medicina ma rispondevo da piccolo teologo. ‘Per la vostra ostinazione vi romperei la testa!’ mi disse il medico. Con una calma che non mi parve mia, gli dissi: ‘Il medico del mio paese cuciva le teste rotte. Lei rompe quelle sane!’. La battuta fu efficace. Rise anche il prete. Ci licenziammo e me ne andai, questa volta non minacciato e non insultato” (p. 21).

Dopo alcune tappe intermedie (Abruzzo, Umbria), nel 1908 Lucio viene trasferito in Sicilia, a Scicli (Ragusa) dove trova una situazione sociale intollerabile: “i ricchi signori, – sintetizza la figlia Miriam – divenuti feudatari con mezzi anche illeciti, trattano come bruti i coloni. Li fanno lavorare dalla mattina alla sera, lontani dalle famiglie, che vedono solo alla domenica, per un piatto di fave e un po’ di frumento alla raccolta” (p. 25). Davanti a tanto disastro, non si scoraggia ma progetta e, gradualemnte, attua una complessa strategia di liberazione su più livelli.

Innanzitutto, si dedica alla istruzione e alla formazione culturale: “fonda scuole elementari, doposcuola, una sezione di asilo infantile, corsi serali per analfabeti” (p. 26). Per rafforzare ed estendere la promozione culturale fonda un giornale, “Il Semplicista”, che resisterà – con sospensioni forzate – per decenni: “un esperimento religioso unico” – commenterà nella Tesi di laurea del 2001 la giovane ricercatrice Laura Malandrino – “perché fu aperto a chiunque, evangelici, cattolici, buddisti, maomettani ed atei; esempio di un esperimento politico come pochi, essendo stato lo specchio dell’opera politica di Schirò, che fece di Scicli una sorta di repubblica indipendente nello Stato”.

Nella convinzione che la formazione dell’intelletto è condizione necessaria ma insufficiente, si impegna in prima pesrona anche su un secondo livello: l’organizzazione sociale. Avendo notato che “nel periodo estivo i fanciulli più poveri sono lasciati liberi per le vie del paese rese quasi impercorribili dal caldo afoso e snervante” e che, addirittura, “qualcuno non ha mai visto il mare”, Schirò “riunisce i genitori  e organizza insieme a loro una colonia estiva” (p. 32). Nella stessa ottica, avvia “una cooperativa dove i poveri pososno acquistare i prodotti a prezzi moderati” e fonda “una lega di contadini” 8p.. 26) , una sorta di sindacato.

La formazione culturale, l’organizzazione sociale: ma non basta. Con intelligenza davvero lungimirante, egli intuisce che – se si vuole incidere profondamente e durevolmente - bisogna attivarsi anche sul piano della politica istituzionale. E’ così che, sin dal 1910, con la stretta collaborazione di un avvocato, fonda a Scicli la sezione del Partito Socialista: dopo la Prima guerra mondiale, cui egli si era opposto fermamente, i socialisti vincono le elezioni del 1920 e il pastore della chiesa metodista diventa anche sindaco della città. Avverte la stranezza, o per lo meno la straordinarietà, dell’identificazione in una sola persona dei due ruoli e, sin dal primo discorso alla popolazione, chiarisce il suo desiderio di andare oltre l’emergenza per tornare alle occupazioni abituali: “Io guardo questo posto e mi sento a disagio. Questo posto non è mio, è degli sciclitani. Il mio posto è alla Chiesa. Ben vengano i paesani a gridare viva il Socialismo, io allora al loro grido esultante unirò la mia benedizione” (p. 29).

Socialista, pacifista, nonviolento: dunque antifascista

Per decenni siamo stati abituati a considerare inscindibile il legame fra radicalità rivoluzionaria e lotta armata: al punto che, quando il segretario nazionale di un partito comunista propone – come in questi mesi – un’adozione seria e convinta della metodologia nonviolenta, scattano già nella stessa Sinistra i sospetti di opportunismo e le diffidenze verso possibili ripiegamenti compromissori. Lucio Schirò D’Agati non sarà stato, a giudicare dagli scritti che ci rimangono, un pensatore particolarmente profondo o originale: ma ha certamente visto con lucidità anticipatrice ciò che intere generazioni successive hanno stentato – e tutt’ora stentano – a vedere. Intendo che ha visto con chiarezza stupefacente come l’interesse delle fasce deboli dei popoli di tutto il mondo implica il rifiuto della guerra come mezzo per risolvere i conflitti fra gli Stati e  che il rifiuto della guerra implica il rifiuto della violenza come arma per risolvere i conflitti interni agli Stati. In altri termini: che il socialismo comporta il pacifismo e che il pacifismo comporta la nonviolenza attiva. La riprova che la connessione fra questi tre princìpi ‘funziona’ è data dalla sua incompatibilità con qualsiasi logica reazionaria. E infatti il fascismo storico si scatenò spietatamente contro il piccolo pastore di provincia che  incarnava nella sua opera quotidiana l’intreccio esplosivo (e tanto pericoloso per gli interessi dei poteri forti) fra difesa dei poveri, rifiuto della guerra e lotta tendenzialmente nonviolenta.

Che cosa abbia significato per Schirò essere socialista, cioè dalla parte degli sfruttati, lo si è accennato: pur senza escludere mutamenti di regime epocali, egli ha innescato - nel ‘qui’ ed ‘ora’ della sua sfera d’intervento -  iniziative culturali, sociali e politiche che rendessero in qualche modo visibile e palpabile un processo di emancipazione. Aveva tante ragioni per maledire il buio ma, per riecheggiare un detto orientale, ha preferito accendere la sua candela.

Si è anche accennato alla sua (per me conseguente) opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Su questo punto non si può non citare almeno qualche passaggio cruciale di un articolo del 12 dicembre 1914 in cui egli taccia, “quei socialisti che ieri votarono contro le spese militari ed ora son per la guerra”, di tradimento del “Proletariato, il quale, in ogni guerra, paga sempre ed esige mai!” (p. 93). Bisogna entrare in guerra per combattere la disoccupazione? “Ma la richiesta di lavoro a spese dell’altrui sangue mi sa di cinismo più che brigantesco” (p. 93). Bisogna entrarci perché “questa guerra sarebbe rivoluzionaria”? “Non è vero. Io osservando che i monarchi si fanno fotografare in divisa militare deduco che Militarismo e Monarchia sono sposi. Perciò ogni vittoria militare costituisce un nuovo forte attorno al Trono” (p. 93). Bisogna entrare in guerra per ragioni patriottiche? “Pretesto borghese. Se oggi l’Italia conquisterà Trento e Trieste, domani vorrà conquistare Nizza, Savoia, Tunisi, Malta ecc…per cui l’ingordigia non sarà saziata e sarà suscitata la diffidenza franco-inglese; l’odio austriaco non sarà spento ed invece sarà acceso quello tedesco contro l’Italia, il che richiederebbe enormi spese militari offensive e difensive. Ad ogni modo se l’Italia conquisterà il Mondo pel Proletariato non conterà proprio nulla, conterà per la Borghesia. Che sia dunque essa sola l’assassina” (pp. 93 – 94). Bisogna entrare in guerra per  ragioni umanitarie, per annientare la “barbarie teutonica”? “Superficialità. Ammesse magari per vere e moltiplicate per 10 le gesta barbare attribuite ai tedeschi affermo che non pesano un terzo degli orrori commessi dal Belgio militaresco nel Congo e dalla Russia Czaresca sul bel corpo di Maria Spiridonova e sulle menti di Massimo Gorki, Tolstoj ecc.” (p. 94).  

Nella prima metà del XX secolo non era strano che socialismo e pacifismo si intrecciassero: molto meno ovvio, però, che si coniugassero anche con la nonviolenza. Qui la tradizione marxista, presente anche nel Partito Socialista da cui nel 1921 si era distaccato il Partito Comunista, pesava fortemente: essere rivoluzionari implicava il ripudio della guerra, ma anche l’adozione della lotta armata. Schirò, però, ha radici non solo socialiste: il suo cristianesimo evangelico gli vieta di concepire l’uso della forza fisica come metodo ordinario. Con molto anticipo su orientamenti attuali (pensiamo, per limitarci ad un solo riferimento, al dibattito interno al Partito della Rifondazione Comunista circa la scelta programmatica per la nonviolenza), egli vive con costanza e coerenza un inequivoco atteggiamento nonviolento che gli ha meritato, da parte di Andrea Speranza nel corso di un convegno commemorativo del 1982, il titolo di “Martin Luther King della Sicilia Sud-orientale” (p. 76).

Socialista, pacifista, nonviolento: troppo per il fascismo! Ma proprio le persecuzioni dei fascisti lo confermeranno nella validità delle sue opzioni -  esistenziali e politiche -  di fondo. Quando il 26 dicembre del ’20 le squadracce d’azione aggrediscono dei cittadini inermi, Schirò  - informato mentre è riunito con cento persone nell’assemblea della Cooperativa -  si precipita nel luogo dell’assalto, affronta da solo e inerme i quaranta facinorosi e, benché colpito alla testa e sanguinante, non recede dalla richiesta alle Forze dell’Ordine di fare il loro dovere. Quando, poi, la situazione si capovolge e la gente inferocita vuole fare giustizia sommaria dei caporioni, è proprio Schirò ad accoglierli a casa propria per evitare una strage! Ovviamente la cortesia non gli sarà ricambiata. Intimidazioni e attentati si susseguono senza posa, anzi con violenza crescente: sino a quella sera dell’estate del  1921  in cui i fascisti sparano sul pastore ferendo lui, una figlioletta, alcuni amici ed uccidendo un pover’uomo reo soltanto d’essere simpatizzante della Chiesa metodista. Quando poi il regime s’instaura ufficialmente, sono le stesse autorità   ad angariare il ‘suddito’ sospetto: come quando – siamo già nel ’29 -  il Commissario di Pubblica Sicurezza lo interroga, lo schiaffeggia e lo accusa di aver dichiarato di voler devolvere un certo sussidio “per il bene dei comunisti”, reagisce solo con il suggerimento ironico di consultare il vocabolario italiano per cogliere la differenza fra ‘comunisti’ e ‘comunità’.

Il suo servizio sopravvive al crollo del fascismo ed è ‘ministro’ della sua comunità religiosa sino al 1952: si spegnerà, non senza ragioni di sconforto come pure di consolazione, il 30 giugno del 1961. In un articolo del 1924 egli aveva evidenziato, con un linguaggio ‘datato’ che però conserva una propria tempra, come la storia documenti “l’esistenza di profeti in determinati tempi e luoghi, senza dei quali non si sa quali splendori avrebbe la religione se pur non avesse la bruttura di turpe manutengola della falsa Politica. Guai la mondo (…) moderno se in tempi difficili, in mezzo al chiasso di politicanti incoscienti, al lezzo dell’affarismo, al disgusto del turpiloquio e dello scempio di uomini e cose, al gemito straziante della Verità offesa, della Giustizia mutilata e della Libertà inceppata, mancasse la voce ammonistrice di sinceri ministri del Ciel!”. Non mi pare esagerato affermare che proprio Lucio Schirò D’Agati sia stato una di queste figure ‘profetiche’, capaci cioè di interpretare con più acutezza i “segni dei tempi” e di anticipare con più inventività le pratiche adeguate alle sfide della storia.

martedì 23 novembre 2004

MAFIA: LA DIFFERENZA FRA DC E PCI


“Repubblica- Palermo”, 23.11.04
Augusto Cavadi

La lontananza genetica fra mafia e Pci 

Come ha scritto Amelia Crisantino su queste colonne, Franco Nicastro ha capovolto  - nel suo Il bifrontismo del P.c.i – la convinzione diffusa, almeno negli ambienti di sinistra, che la Democrazia cristiana sia stata più irretita dal sistema mafioso rispetto al Partito comunista. Uno degli argomenti decisivi: i democristiani si alleavano con i mafiosi a titolo privato, i comunisti lo hanno fatto – o lo hanno tentato – come opzione meditata di un partito organizzato.

Non potevano tardare le reazioni “a caldo”, prima fra tutte di Salvatore Lupo che di storia della mafia s’intende almeno quanto di storia del socialismo. La sua preoccupazione principale: evitare che si arrivi, partendo dal corretto rifiuto della tesi che i democratici cristiani sono stati quasi tutti mafiosi, a negare la tesi (questa, sì, incontestabile) che i mafiosi sono stati quasi tutti democristiani. Perché questa alleanza fra Cosa nostra e Scudo crociato? Alludendo, suppongo, agli studi di teologi come don Cosimo Scordato e di storici del cristianesimo come don Francesco Stabile, Lupo tende a negare che questo strano connubio sia stato determinato “da fattori di solidarietà ideologica (il cattolicesimo), o da un qualche esplicito progetto legato alla guerra fredda, come si sente e si legge di sovente”. A suo parere la spiegazione è più terra terra: la Dc era al centro di un sistema di potere permeabile da tutti i gruppi di pressione, dunque a maggior ragione dal “più pericoloso ed efficiente di tutti i gruppi di pressione – la mafia”.

Personalmente riterrei che le affermazioni di Lupo siano interessanti, molto meno le sue negazioni. Capisco infatti l’utilità ermeneutica della sua opinione se proposta in aggiunta, non in sostituzione, delle altre da lui richiamate. E’ vero, infatti, che la mafia è “ben più antica dei partiti e dunque, a maggior ragione, della Democrazia cristiana”. Si potrebbe chiosare che essa corteggia (e, se corrisposta, amoreggia con)  chi si trova in una determinata epoca al potere: dunque si atteggia a filo-liberale al tempo del liberalismo, a filo-fascista al tempo del fascismo, a filo-democristiana al tempo dello strapotere democristiano, a filo- berlusconiana al tempo del berlusconismo…Se uno avesse ancora qualche dubbio in proposito, gli sarebbe sufficiente osservare come il consenso di certi ambienti mafiosi  si sia orientato verso i socialisti di Craxi quando Martelli era Ministro della Giustizia e verso l’Ulivo nei pochi anni in cui è stato al timone a Roma e a Palermo.

Detto questo in pieno accordo con Lupo, perché privarsi di andare un po’ oltre la “constatazione del fatto”? Forse la mafia non ha ragioni “ideologiche” per allearsi con questo o con quell’altro schieramento: ma perché escludere che questo o quell’altro schieramento abbia ragioni “ideologiche” per allearsi con la mafia? Lo sappiamo, almeno da Marx in poi: le ideologie camminano su gambe molto ‘materiali’. Ma ciò non significa – non lo significava neppure per Marx secondo la testimonianza dello stesso Engels – che si possa ridurre la storia a fattori economici o sociali. Ecco perché, con grande senso di autocritica, alcuni studiosi cattolici hanno avanzato il sospetto che la Chiesa nel suo insieme – e il partito cattolico in particolare – abbiano nutrito nei confronti del sistema mafioso una simpatia ispirata sia da inquietanti affinità elettive (entrambi i sistemi sono fortemente gerarchizzati, tradizionalisti, conservatori, dogmatici, maschilisti…) sia da comuni avversioni (contro il movimento socialista operaio e contadino e contro quell’Urss che sembrava incarnare il sogno dell’uguaglianza in terra). Ovviamente questo non significa identificare il sistema mafioso col sistema dottrinario e disciplinare cattolico, negando le irriducibilità che (per …grazia di Dio) permangono e che hanno portato, fra tanto altro, al martirio di preti come don Pino Puglisi o don Peppino Diana.

Se posso dirla proprio tutta, rivalutare più di quanto sembra fare Lupo la dimensione simbolica e culturale potrebbe consentire – inoltre - di decifrare meglio gli episodi sconcertanti riferiti da Franco Nicastro a proposito delle strane indulgenze del Pci verso questa o quella organizzazione mafiosa. Non è infatti impossibile che un apparato come il Partito comunista - fortemente gerarchizzato, dogmatico, maschilista, moralista, diffidente nei confronti della democrazia borghese e del pluralismo politico… – abbia potuto ipotizzare, almeno in qualche occasione,  di accordarsi con la mafia per combattere quello Stato liberale, timidamente temperato da socialdemocrazia, che era – o poteva apparire - il comune nemico.  Ma, per evitare polemiche superflue, va ribadito che neppure in questo caso, ovviamente, si possono cancellare le irriducibilità fra il sistema mafioso e il sistema dottrinario e disciplinare comunista: quelle incompatibilità strutturali, costitutive, genetiche che (per fortuna) rimangono e che hanno portato, fra tanto altro, al martirio di militanti comunisti come Cesare Terranova e Pio La Torre.

venerdì 12 novembre 2004

DIALOGO FRA RELIGIONI


“Repubblica – Palermo” 12.11.04

Augusto Cavadi


L’abbraccio tra islam e cristianesimo 

Venerdì 12 novembre: per molti una data come tante. Ma per centinaia di migliaia di cittadini italiani  - per  decine di migliaia di siciliani – coincide con una festa rilevante: la conclusione del Ramadan, periodo sacro di digiuno e preghiera. Per l’islamismo, qualcosa di paragonabile solo al nostro Natale o alla nostra Pasqua. Opportunamente, dunque, questo giorno è stato prescelto come Giornata nazionale per il dialogo cristiano - islamico: preziosa occasione per approfondire la reciproca conoscenza fra le due religioni e, conseguentemente, fra le diverse civiltà da esse influenzate – nel bene  e nel male - profondamente.

Già, perché si parte già col piede sbagliato se si ignorano questi due dati storici evidenti. Primo: l’islamismo non è identificabile con una civiltà (si è inculturato nella civiltà araba, ma anche in quella persiana, turca, indiana, palestinese, sudanese, egiziana, pakistana…) proprio come il cristianesimo, originatosi in ambiente ebraico, si è incarnato – modificandosi variamente – nella cultura greca, romana, franca, germanica, iberica, russa, sudamericana…Parlare di “scontro di civiltà”, a proposito di cristianesimo e islamismo, è  scorretto - prima che politicamente -  dal punto di vista storico.

Il secondo dato indiscutibile è che l’islamismo non è stato solo foriero di perversioni morali (spirito di intolleranza, aggressività verso gli infedeli, censure intellettuali, tendenze antifemministe, repressioni contro gli omosessuali) ma anche di elevazione culturale ed etica (studio scientifico della natura, solidarietà con i ceti più disagiati, contemplazione poetica, produzione artistica): esattamente come il cristianesimo è stato ispiratore di progressi civili ma anche di terribili oscurantismi. Non si può dunque affrontare il confronto con l’islamismo nel presupposto, più o meno tacito, che ‘noi’ illuminati ci degniamo di dialogare con ‘loro’, poveri barbari arretrati: gli uni e gli altri, infatti, abbiamo tanto meriti da  rivendicare quanto scheletri negli armadi. Sia all’interno delle diverse confessioni islamiche che all’interno delle diverse confessioni cristiane passa il confine davvero decisivo: fra fondamentalisti (integralisti e intolleranti) e spiriti autenticamente religiosi (dunque laicamente disposti all’autocritica, per quanto riguarda il passato, e aperti – nel presente - alla collaborazione con tutti gli uomini di retta volontà); fra chi  è prigioniero delle proprie tradizioni tribali e vuole usare il terrore per esportarle e chi, senza rinnegare una virgola del proprio patrimonio culturale, accetta come una conquista del progresso umano le regole del pluralismo e della democrazia.Che la questione della reciproca conoscenza fra cristiani ed islamici sia di particolare urgenza in Sicilia, dove cittadine come Mazara del Vallo sperimentano da decenni interessanti forme di integrazione solidale, è testimoniato da diverse iniziative di cui l’opinione pubblica non sempre è adeguatamente informata.Nel febbraio del 2004, ad esempio, la Facoltà teologica di Sicilia ha pubblicato con le Edizioni Paoline un testo (commissionato dalla Conferenza episcopale regionale) - Per un discernimento cristiano sull’Islam – che, pur con qualche reticenza di troppo, invita preti e laici credenti a moltiplicare, “in ogni diocesi, comunità e movimento”, le occasioni di formazione per “comprendere gli enunciati fondamentali dell’Islam”: sì da procurarsi “una conoscenza solida anche sotto il profilo linguistico, per un confronto delle tradizioni e dei principali testi di ogni confessione religiosa” - non solo cristiana ed islamica, ma anche ebraica – “nelle rispettive lingue originarie”.Amministratori illuminati, come il sindaco di Favara, hanno anche saputo dare concretezza a questa volontà di dialogo: dopo aver creato “Il giardino di Abid ” in onore del tunisino che si è sacrificato per salvare dei bagnanti siciliani (meritando la medaglia d’oro al valor civile), ha stipulato un gemellaggio con Menzel Temine, la città originaria del valoroso immigrato. Ha anche proposto, suscitando qualche polemica provinciale, la costruzione di un “Tempio della pace” aperto a chiunque voglia usarlo per incontri religiosi e celebrazioni spirituali. Nei prossimi giorni, infine,  si recherà in visita nel paese africano ‘gemello’ per realizzare i primi passaggi di un progetto di sviluppo finanziato dall’Unione europea. Sempre nei prossimi giorni (più esattamente: dal 14 al 17 novembre) il Ciss   - l’associazione palermitana che da decenni opera per la cooperazione internazionale fra i Sud del mondo – realizzerà la Prima rassegna di videodocumentari dedicati, in modo particolare, alla condizione dei rifugiati e degli immigrati in Sicilia.Proprio domani, infine,  nell’ambito di un convegno organizzato all’Hotel Costa Verde di Cefalù dalle cattolicissime ‘Comunità missionarie del Vangelo’, è previsto l’intervento di Khalid Chaouki, presidente dell’associazione italiana dei giovani musulmani. Gli è stato chiesto di parlare su “Islam e cristianesimo: un dialogo alla prova”, ma senza dimenticare di inquadrare la sua relazione all’interno del tema generale del convegno interreligioso, dal titolo sin troppo eloquente: E se Dio rifiuta la religione? Già, perché fra tante prospettive sulle religioni, sarebbe interessante tentare di riflettere  - almeno qualche volta –  dal punto di vista di Uno che ne sa qualcosa. Può darsi che, come si dice familiarmente, se ne vedrebbero delle belle. 

MAFIA E POLITICA


Centonove 12.11.04

Augusto Cavadi


AMICI COME PRIMA. ANZI, DI PIU’

Per quanto tecnicamente impossibile da seguire, darei al lettore un consiglio preliminare: evitare di leggere il nome dell’autore prima del libro. O, se proprio è inevitabile, non sciogliere il dubbio se si tratti dell’ex-segretario regionale siciliano (e attuale deputato dell’Ars) di Rifondazione comunista o di padre Pio da Pietralcina. Il principale merito del volume, infatti, è di lasciar parlare gli eventi, mettendo fra parentesi (per quanto è possibile) precomprensioni ideologiche e ottiche di parte. Di quali eventi si tratta? Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe in base al sottotitolo (Storie di mafia e politica nella Seconda Repubblica),  l’ambito della trattazione è più circoscritto: sono storie di mafia e politica della “Seconda Regione” (p. 52) dal 22 ottobre 1999 al febbraio del 2004 (proscioglimento del diessino Mirello Crisafulli dalle accuse di complicità con ambienti mafiosi).

Perché proprio quella data di partenza? Perché “quel giorno segna una svolta” (p. 21): l’onorevole Giulio Andreotti viene assolto in primo grado dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. “Una filosofia e una pratica del potere” (p. 22) – sia pure riprodotte in formato ‘bonsai’ e tradotte in dialetto – vengono riabilitate. Dall’andreottismo al cuffarismo: “Evvai!”, commenterebbe l’avvocatessa Bongiorno del collegio di difesa schierato contro la “procura della Repubblica rossa diretta da Giancarlo Caselli” (p. 21).

Da quel momento magistrati inquirenti, giornalisti, opinionisti e magistrati giudicanti non si stancano di registrare episodi incredibili di malcostume (che Forgione ha il merito di inanellare in sequenza cronologica sottraendoli all’oblìo inevitabile del lettore medio): viene arrestato Rosario Lo Bue (“il reggente di decine e decine di ettari di terreno di proprietà di Totò Riina”) e si scopre che il fratello è “campiere e reggente di tutti i terreni e delle proprietà”  del presidente della Regione Giuseppe Provenzano “nel territorio di Corleone” (p. 59); a Trapani, invece, la potente famiglia del senatore Tonino d’Alì,  “sottosegretario all’Interno con la delega alle prefetture” del governo Berlusconi bis (p. 66) , preferisce scegliere -  come “reggente delle terre e delle tenute (…) in contrada Zangara a Castelvetrano” – “uno dei patriarchi della mafia trapanese, Francesco Messina Denaro” (p. 64). Che la mafia si rapporti costitutivamente  con i politici, non è una novità: senza questa connessione sarebbe una delle tante associazioni criminali che infettano il pianeta. Nuovo è invece il fenomeno per cui molti mafiosi, non fidandosi abbastanza dei politici, imitino la scelta di alcuni imprenditori del Nord quando non si sono neppure loro fidati dei referenti politici: scendono, personalmente e direttamente, in campo. Così, a Favara, Giuseppe Nobile, “un medico analista con il pallino della politica” (p. 71), occupa contemporaneamente la poltrona di “rappresentante del mandamento di Favara” nella “cupola” agrigentina e di “presidente della Commissione provinciale per lo sviluppo economico e produttivo” (p. 72). Qualcosa di inquietantemente simile a Pantelleria dove il sindaco Alberto Di Marzo viene accusato, e condannato, perché gestiva – contemporaneamente – “il bilancio del Comune” e “il libro mastro del racket delle estorsioni nell’isola” (p. 110).

Impossibile rievocare tutti gli altri episodi pazientemente ricostruiti dall’autore. Chi vorrà, potrà ripercorrerli con agio sfogliando il libro. E magari arrivare alla conclusione bipartisan che politica ed etica non si identificano: nelle questioni politiche si può e si deve essere “elastici”, ma quando si toccano le corde dell’etica non si può non essere rigorosi e intransigenti. 

venerdì 5 novembre 2004

SPAZI PUBBLICI USI PRIVATI


Repubblica – Palermo 5.11.04

Augusto Cavadi


QUEGLI ALTOPARLANTI AL CIMITERO

Alle pendici di monte Pellegrino, fra le borgate marinare dell’Arenella e di Vergine Maria, si adagia il suggestivo cimitero dei Rotoli. E’ uno dei due più vasti camposanti della città e, come è uso fra noi siciliani, in questi giorni riceve la visita di migliaia di pellegrini. La pietas verso i defunti s’intreccia, sottilmente, con la necrofilia: l’osservatore stenta a decidersi fra il compiacimento e il rammarico. Ci si aspetterebbe che, almeno in questo segmento di tempo, il frastuono abituale (più di un ospite me lo ha fatto notare: Palermo non conosce le pause di silenzio delle altre città europee) cessasse. E con esso gli alterchi: effettivi, recitati, circoscritti, amplificati…Ma non è così. Ogni domenica il traffico enorme di automobili e di mezzi pubblici non è regolato dall’ombra di un vigile urbano. Se non fosse per i posteggiatori abusivi - qui un po’ meno arroganti e un po’ più efficienti perché giovani immigrati di colore nero – che gestiscono a modo loro il viavai, il caos sarebbe totale. In questi giorni eccezionali, qualche casco bianco lo si intravede: ma si tratta di presenze del tutto insufficienti rispetto alle necessità. Nessuno di loro, poi, osa obiettare qualcosa ai numerosissimi clienti che decidono di acquistare i fiori, di farsi prestare gli annaffiatoi, di restituire gli annaffiatoi ricevuti in prestito, senza mollare per un solo momento il volante dell’automobile. Anche a costo di creare ingorghi terrificanti e attese snervanti.

Superate le barriere dei metalli semoventi e dei loro gas asfissianti, una volta guadagnati i viali interni ti aspetteresti finalmente un po’ di pace. Temporanea, in attesa di quella definitiva.  Ma anche questa aspettativa è condannata a rimanere delusa. Per ben tre o quattro volte, infatti, degli altoparlanti attivati al massimo della loro potenza diffondono  - in maniera tale che nessun angolo del cimitero, anzi nessun angolo delle borgate limitrofe possa sfuggirvi -  le voci osannanti dei fedeli e quelle roboanti dei predicatori di turno. Sei un credente cattolico e hai già partecipato altrove ad una liturgia? Sei credente ma non cattolico e intendi partecipare, in un altro momento,  alla liturgia della tua chiesa? Non sei né cattolico né credente e non desideri partecipare a nessuna liturgia ma, solo, meditare in raccoglimento sulla tomba dei tuoi cari? Nessuna di queste ipotesi è contemplata. O, se prevista, sovranamente snobbata. Una volta che varchi la soglia del camposanto, devi – volente o nolente – essere coinvolto nella preghiera di quella sparuta minoranza di fedeli che, per ragioni rispettabilissime, hanno scelto quel luogo e quell’ora per onorare il loro Dio (senza preoccuparsi, altrettanto, di rispettare il loro prossimo).

Tutto questo sarebbe normale se quello spazio fosse – come, almeno sulla carta, non è – lo spazio privato di una determinata comunità religiosa. Ma si dà il caso che sia  - o sarebbe – del Comune di Palermo: dunque pubblico, laico, aconfessionale. Non so se in tutti i Paesi a maggioranza musulmana (per esempio anche in Turchia) avvenga ciò che mi ha impressionato in Iran: che all’ora della preghiera, gli altoparlanti delle moschee debbano invadere gli ambiti civili della piazza, del mercato, degli uffici per ricordare – imperiosamente – i doveri religiosi. So solo che ormai da mille anni la Sicilia non è più una regione a maggioranza islamica. Normanni e svevi, angioini e aragonesi, borboni e garibaldini non dovrebbero esser passati invano: almeno dall’illuminismo in poi, e soprattutto dall’entrata in vigore della costituzione repubblicana, dovrebbe essere chiara la demarcazione fra pubblico e privato. L’amministrazione municipale, specie se in mano a rappresentanti del pensiero liberale moderno, anzi post-moderno, dovrebbe garantire a ciascun cittadino il diritto di praticare la propria religione come quello di non praticarne alcuna. Dovrebbe incarnare l’ideale cavouriano di una libera Chiesa in un libero Stato. Dovrebbe rendere attuabile per ogni cittadino il desiderio di esprimere la propria fede, a patto di non intralciare l’analogo desiderio di ogni altro. Almeno una volta l’anno. Almeno di fronte a quel mistero della morte che – per riprendere la delicata poesia di Totò de Curtis – come una “livella” sfronda gli umani dalle differenze secondarie e dagli ingiusti privilegi.

venerdì 29 ottobre 2004

LE REGOLE DELLA CHIESA


Centonove 29.10.04

Augusto Cavadi 


Chiesa, due pesi e due misure 

Anche con la migliore benevolenza del mondo, a leggere le notizie di questi giorni difficilmente si può evitare di chiedersi: “Ma la chiesa cattolica siciliana sta perdendo la bussola?”. Da una parte si legge che il direttore del coro della cattedrale di Palermo viene licenziato (non in senso giuridico: prestava gratuitamente la sua opera a titolo di volontariato) perché nelle alte sfere della gerarchia non si accetta il suo status di divorziato; dall’altra parte, però, il prete – reo confesso di abusi sessuali su minori, consumati approfittando del suo ruolo sacerdotale – viene riammesso, dopo la condanna concordata col Tribunale statale, all’esercizio delle sue precedenti funzioni.

La prima osservazione che sale in gola, dalla pancia, è che ci troviamo di fronte ad un fenomeno di schizofrenia istituzionale: detto in soldoni, che si usano due pesi e due misure. Rigore quasi spietato per chi non è riuscito a ‘salvare’ il matrimonio (senza neppure chiedersi se si tratti di un coniuge che ha proposto la separazione o che l’abbia subìta); comprensione e fiducia, quasi offensive per i ragazzi che avevano avuto il coraggio di denunziare il prete, nel secondo caso.

Già questa disparità di criteri sarebbe inquietante se si trattasse di due ‘reati’ equipollenti; addirittura insopportabile risulta, per una coscienza etica, se si considera che è stato trattato più duramente il caso meno grave (il coniuge divorziato) e con più elasticità il caso più grave (il pastore pedofilo).

Immagino facilmente l’obiezione cui va incontro chi esterna il proprio stupore amareggiato: ma a noi cosa interessa? Sono faccende interne ad una comunità religiosa: riguardano solo quanti vi si riconoscono. Peggio per chi ci resta, se vi appartiene da bambino; o per chi vi sia entrato da adulto.

L’obiezione ha un suo fondamento, ma accettarla sino in fondo porterebbe a quella totale incomunicabilità fra sfera ecclesiale e sfera civile che non giova alla maturazione né della chiesa né della società. Nella realtà, al contrario, la stragrande maggioranza dei cattolici non rinunzia all’esercizio del proprio senso critico né, d’altra parte, la stragrande maggioranza dei laici è disposta a rinunziare al diritto di critica su ciò che avviene all’interno della comunità cattolica o islamica o new age.   

In forza del diritto-dovere di usare la propria testa, che dire di fronte a episodi incredibili come quelli registrati?

Diamo per scontato che ogni organizzazione ha diritto di darsi le norme che preferisce: purché, per onestà intellettuale, non tenti di giustificarle facendo appello indebitamente ad istanze ‘superiori’. Nel nostro caso: la chiesa cattolica può adottare i criteri di giudizio che preferisce (magari per  commissionare, poi, a gruppi di sociologi e psicologi  ricerche raffinate sul perché la gente si allontana sempre più dalle pratiche confessionali), purché lo faccia nel rispetto del vangelo di Cristo.

Ebbene, se – pur restando in un’ottica sostanzialmente tradizionale - accettiamo i risultati dell’esegesi, impariamo che Gesù avrebbe valutato esattamente in maniera opposta le due ‘debolezze’. Infatti egli, da una parte, è molto duro nei confronti di ogni genere di scandalo che coinvolga i minori: dichiara che la condizione di chi si mostrasse testardamente e intenzionalmente incurante nei loro confronti, sarebbe peggiore di uno cui “fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare” (Matteo, 18, 6). Di contro, non entra nel merito delle relazioni coniugali con atteggiamento di legislatore ma solo con l’intento di indicare una méta ideale. Come scrive il padre gesuita G. Lofhink (a p. 140 del suo fortunato Ora capisco la Bibbia, Dehoniane, Bologna 1982), “equiparando divorzio e adulterio, intende formulare una vera provocazione. Gesù vuole scuotere, smascherare, scoprire il vero contenuto della prassi giuridica sul divorzio. Tutto ciò però non s’accorda affatto con una legge, perché la legge non deve mai provocare se deve essere accettata. (…) . Il loghion sul divorzio non sarebbe in realtà una legge, ma una parola profetica” (G. Lofhink, p. 140). Insomma: coloro che non riescono a portare a termine una vicenda matrimoniale non sono rei da sottoporre ad alcun genere di giudizio ‘istituzionale’, ma persone che – per le ragioni più diverse – non sono riuscite a raggiungere una méta che pure si erano prefissi.

Già questa graduatoria di ‘peccati’ sarebbe più conforme ad una lettura ‘scientificamente’ accurata dei testi biblici. Ma, alla luce di alcune teologie avanzate come quella di Eugen Drewermann, si potrebbe fare ancora di più. Si potrebbe sognare una chiesa che muti radicalmente il proprio atteggiamento nei confronti dei ‘peccatori’ in carne ed ossa nella consapevolezza che il Maestro di Galilea è venuto non per condannare, ma per salvare; non per chi ritiene di essere a posto con la coscienza, ma per chi sa di essere imperfetto; non per premiare i ‘buoni’, ma per incoraggiare i ‘cattivi’; non per rallegrarsi con i ‘sani’, ma per guarire i ‘malati’. Una chiesa all’altezza del messaggio fondante non si presenterebbe come il circolo dei perfetti che dà i voti a minorenni impauriti: sarebbe piuttosto la comunità dei fratelli e delle sorelle che cercano insieme le vie della libertà e della solidarietà. E che in questo cammino si danno la mano nella consapevolezza che la crescita, personale e collettiva, non è sempre così lineare come appare alle menti superficiali. Una comunità, dunque, che esercita comprensione e sostegno reciproco, accettando sperimentazioni e fallimenti, con una sola avvertenza: che i piccoli siano preservati dallo ‘scandalo’. Mentre gli adulti tentano nuove vie, intrecciano le loro storie e faticano nella difficile arte dell’amore, la chiesa dovrebbe limitarsi a prendere soltanto le precauzioni organizzative necessarie ad evitare che sia  coinvolta la fragile psicologia dei minori.

venerdì 22 ottobre 2004

LA FILOSOFIA PUO’ GUARIRE L’INDIVIDUALISMO


“Centonove” 22.10.04

Augusto Cavadi 


Coscienza e fiore di loto 

Il lettore di “Centonove” ha avuto notizia di Luigi Lombardi Vallauri l’anno scorso in occasione di un suo tour siciliano e del suo libro Nera Luce (Le Lettere, Firenze 2001). Un’appettitosa occasione per approfondirne la conoscenza è costituita da un volume edito a Padova dalla Cedam nel 2002 che, nonostante il titolo (Riduzionismo e oltre), reca un sottotitolo (Dispense di filosofia per il diritto) riduttivo o, comunque, tale da indurre a riservarlo mentalmente alla ristretta cerchia degli studenti fiorentini che devono affrontare l’esame universitario curriculare.  Ma, se ciò avvenisse, sarebbe davvero un’occasione mancata per quanti (pur non essendo filosofi di mestiere) volessero aggiornarsi  - in poche pagine , dense e stilisticamente accattivanti – su alcuni dei temi più scottanti del dibattito filosofico contemporaneo.
Il primo capitolo serve all’autore per fare il punto sulla “situazione storica nella quale siamo costretti, e chiamati, a vivere” (p. 1). Se per “Impero” intendiamo “la macromolecola geopolitica del Nord-Occidente, che raggruppa principalmente l’Europa, il Nordamerica e il Giappone sotto l’egemonia globale degli Stati Uniti” (p. 3), oggi assistiamo al fenomeno – apparentemente contraddittorio (se lo fosse realmente, non si darebbe) – di “trionfo e crisi dell’Impero” (ivi). Trionfo in quanto i valori (positivi, negativi o discutibili) di questa fetta di umanità sono ormai egemoni (persino nell’immaginario dei popoli che le si oppongono); crisi perché gli effetti nocivi – diretti o collaterali - di questi ‘valori’ sono ormai palesi a livello sia “strutturale” (pp. 5 – 6) che “esistenziale” (pp. 6 – 7). Alla “impressionante (…) sproporzione tra la potenza dell’Impero sul piano militare o delle biotecnologie e la sua penosa debolezza sul piano mentale, psicologico o delle pratiche spirituali” (p. 7) non sanno opporre rimedio né le ideologie né le religioni. Si tratta, infatti, di misurarsi con la “radice unitaria” (p. 14) dell’ambiguità del Moderno. Lombardi Vallauri propone di condensare tale radice in una formula impossibile da riprendere (pp. 14 – 18) che, con imperdonabile semplificazione, si potrebbe sintetizzare: riduzionismo teoretico (esiste solo ciò che è misurabile scientificamente) e pratico (ha valore solo ciò che risponde all’individualismo possessivo).  Se né le religioni né le ideologie politiche tradizionali sono adatte ad analizzare e ribaltare “l’AIDS culturale dell’Impero” (p. 19), non resta che rivolgersi alla filosofia. Ma cos’è questa filosofia? Alla risposta viene dedicato per intero il secondo capitolo, partendo da una definizione non proprio scontata (in nessun senso del termine) della filosofia come “ricerca esistenziale e razionale della verità del fondamento/significato/valore ultimo della vita umana e del mondo” (p. 22. In corsivo nel testo). Sappiamo, dopo Wittgenstein, quanto sia spontaneo bollare queste aspirazioni come ‘bernoccoli’ della mente: ma chiedersi come mai si ripresentino puntualmente ad ogni nuova generazione sembrerebbe essere un problema reale più che uno “pseudoproblema”…Il bersaglio centrale del ‘riduzionismo’ scientista è proprio l’uomo: egli sarebbe “niente altro che” un impasto di materia, energia e informazione algoritmica. Perciò il terzo capitolo, vero e proprio cuore del libro, è una articolata e documentata critica della “negazione riduzionista della soggettività” (p. 35), nella convinzione che essa sia “davvero un quid completamente diverso da qualsiasi oggetto o fenomeno materico- energetico- informazionale accessibile alla fisica latamente intesa” (p. 36). Il che, ovviamente, non comporta la minima sottovalutazione della dimensione corporea e biologica di tale soggettività: ognuno di noi è, per riecheggiare un mantra tibetano, “gioiello della mente spirituale” che risplende “nel fiore di loto del corpo cosmico” (p. 72).  La categoria della ‘soggettività’ serve all’autore come criterio orientativo per affrontare le tematiche etiche: e non solo della bioetica, in cui è in gioco il destino dell’essere umano (dall’ingegneria genetica all’eutanasia), ma anche dell’etica più comprensiva inglobante il rapporto dell’uomo con gli altri animali e con l’ambiente “selvaggio”. Infatti, ‘soggetto’ si è in molti sensi e a molti livelli: e là dove c’è una scintilla di soggettività (come nel caso degli animali non-umani), c’è proporzionatamente una titolarità di diritti fondamentali. Il cammino non è privo di insidie: ma Lombardi Vallauri lo percorre con passo accorto e, soprattutto, delicato. Il registro che adotta è scevro da trionfalismi dogmatici: il registro di “un’etica e un diritto dolorosamente perplessi” (p. 107).Ma il diritto – e la stessa etica filosofica – non sono la méta ultima dell’avventura umana sulla terra. Secondo l’autore – che si autodefinisce “post-cristiano, post-scientista, post-urbano, post-consumista” (p. 198: ma spero che per una volta il proto non me lo corregga in ‘comunista’…) -  l’anima è, come suggerito da “un’immagine struggente di Peguy”, “una bambina ignara del suo splendore” (p. 199) che sorelle maggiori prendono per mano e accompagnano sino alla conquista di sè stessa. Tali “sorelle grandi” hanno molti nomi nelle diverse epoche e nelle diverse culture: “bodhi”, “nirvana”, “samadhi”, “illuminazione”, “realizzazione ontologica”, “emozione estetica”, “estasi pre-orgasmica”, “rapimento amoroso”, “agape/caritas”, “esaltazione avventurale” (p. 199) e così via. Solo chi ha sperimentato, qualche volta almeno, nella vita uno stato simile di estasi (di uscita da sé e di unione con ciò che è reale) – laica o religiosa -, può convincersi, pascalianamente, che l’uomo supera infinitamente senza con ciò precipitare nel delirio d’onnipotenza: “Il singolo asceta lavora alla propria illuminazione, non inventa l’illuminazione; l’ontologo sperimenta o propizia attimi di risveglio-realizzazione, non inventa il risveglio-realizzazione; nessun pittore inventa il bello in pittura, nessun amante inventa, con la sua storia d’amore, il modus amoris” (p. 199).Simili visioni antropologiche – incastonate in un più ampio scenario cosmologico -  possono apparire evasive rispetto alla dura quotidianità feriale. L’autore è troppo saggio per ignorare che esse (proprio come le banalità – che potrebbero sostituire - solidificatesi nell’immaginario collettivo) hanno sul piano della pratica politica ed economica delle ricadute non indifferenti e, in chiusura, vi accenna, per esempio dove scrive: “La cosiddetta cultura della managerialità è – vista dalla prospettiva della cultura pleromatica – una delle due o tre forme fondamentali possibili della negazione della cultura. Il manager-per-il-profitto è una pura e semplice gigantografia operativa dell’individualista possessivo, cioè dell’avversario oggi forse più potente che si trova di fronte l’umanesimo pleromatico” (p. 216). Si tratta, comunque, di accenni troppo rapidi. Nell’animo del lettore che arriva all’ultima pagina potrebbe profilarsi il desiderio che, sporgendosi oltre l’aristocratica impoliticità maturata, Lombardi Vallauri prepari qualche volta delle dispense di filosofia per… la politica.

venerdì 24 settembre 2004

FORMAZIONE E VITA DEI SACERDOTI


“Repubblica – Palermo” 24.9.04

Augusto Cavadi 


I sacerdoti nel dramma dei mali siciliani 

L’abbiamo letto ieri su queste stessse colonne: in questi giorni riaprono non solo scuole e università, ma anche seminari e facoltà teologiche. Anche i futuri preti (ma, si potrebbe aggiungere, le future suore) tornano sui banchi: in che contesto, ecclesiale e sociale? Con quali problematiche, personali e istituzionali? Con che prospettive, soggettive e collettive?  Con la solita acutezza e franchezza, don Vincenzo Noto ha accennato ad alcune delle ‘piaghe’ (avrebbe detto Rosmini) della situazione attuale: gli aspiranti al sacerdozio sone sempre meno numerosi, a quei pochi che perseverano viene chiesto sempre di più (in termini non solo quantitativi ma anche qualitativi) e, come se ciò non bastasse, credenti e laici non si preoccupano minimamente di accompagnare la formazione umana, culturale e spirituale dei futuri presbiteri. Salvo poi, nei momenti ‘ufficiali’ (soprattutto battesimi, matrimoni e funerali), a chiedere il loro servizio, anche nel caso che non si sia cattolici convinti e praticanti.

Anche se don Noto non ha occasione di farvi riferimento, la sua accorata denunzia coincide cronologicamente con una Lettera pastorale dal titolo eloquente (“Diamo un futuro alle nostre parrocchie”) che mons. Cataldo Naro (arcivescovo di Monreale, dunque della stessa diocesi di Noto) ha proprio in questi giorni pubblicato e distribuito (facendone pervenire, con squisita sensibilità, una copia anche a me). Dunque l’invecchiamento dei preti che ci sono e la difficoltà di trovarne di nuovi costituiscono motivi di preoccupazioni non solo fondate, ma condivise. In risposta all’invito  - che viene rivolto anche ai laici – di partecipare alla “discussione”, mi permetterei di proporre tre o quattro notazioni telegrafiche.

La prima riguarda quello che per don Noto (ma non per me) sarebbe “il vero nocciolo del problema”: comunità cristiane e società civile non mostrano alcun “interesse” alle vicende interne dei seminari. Ma ci siamo chiesti che possibilità pratiche, concrete, effettive avrebbero l’artigiano di Bagheria, la professoressa di Termini Imerese o il giovane universitario di Villabate di far sentire la propria voce? Quali canali di partecipazione democratica sono previsti  - sulla carta e soprattutto nella realtà – all’interno della Chiesa cattolica attuale? Come intuizioni, desideri, bisogni, proposte del “popolo di Dio” potrebbero  - se espresse – trovare diritto di ascolto e dunque di accoglienza o, in alternativa, di motivato rifiuto?

Ma – e passo ad una seconda notazione – se questi luoghi del “confronto” ci fossero, e venissero utilizzati, la maggioranza dei cattolici praticanti (non metto in conto psicologi, sociologi, consulenti filosofici e storici perché se no mi rendo il gioco dialettico troppo facile) sarebbe d’accordo nel contribuire alla formazione di sacerdoti che rispondano all’identikit attuale? Cioè: lo vorrebbero rigorosamente maschio (ad esclusione di donne e gay)? Lo vorrebbero impegnato per la vita alla solitudine celibataria (concedendogli soltanto relazioni ufficiose purché clandestine)?  Lo vorrebbero allevato nella campana di vetro di istituzioni claustrali, come i seminari (o non raccomanderebbero, come San Paolo nelle sue lettere, che chi è destinato a guidare una grande famiglia abbia avuto prima il modo di dimostrare di essere in grado di gestirne una piccola)?

Nella sua bella Lettera pastorale, mons. Naro espone le sue strategie per “il superamento dell’autosufficienza” (illusoria, più che effettiva) della parrocchia come si configura attualmente. Egli auspica che essa si apra al territorio offrendo una molteplicità di servizi (dunque diaconi, ministri straordinari della comunione, accoliti, lettori, catechisti etc.). Ma non sarebbe il caso di accennare – dopo aver detto che cosa la parrocchia può dare – a ciò che essa può e deve chiedere? Il territorio è solo campo di missione unidirezionale da parte dei cattolici o non è anche un laboratorio antropologico dove i cattolici possono imparare dagli operatori sociali, dagli amministratori locali, dai medici, dagli insegnanti, dai sindacalisti? La parrocchia  - piccola chiesa – non dovrebbe seguire le indicazioni che l’ultimo Concilio universale dei vescovi ha dato ai cristiani: di mettersi a fianco di tutti “gli uomini di buona volontà” per affrontare insieme, senza primogeniture né paternalismi, le sfide della storia (fame, guerra, ingiustizia strutturale, corruzione politica, mafia)? In Sicilia questo non dovrebbe significare che le chiese cattoliche, oltre a ringraziare il governo regionale per le varie provvigioni finanziarie (più annunziate che elargite), aprano la bocca per dire una loro parola sullo stile amministrativo e le frequentazioni accertate (non parlo di ciò che è ancora sub judice) del presidente e dei suoi assessori?   

La questione più radicale  è comunque un’altra ancora. Al di là degli aspetti pedagogici e organizzativi, tutto sommato secondari per quanto rilevanti, la secolarizzazione come fenomeno mondiale pone degli interrogativi colossali: che posto deve avere il sacro nell’esperienza quotidiana della gente? Dio, se c’è, parla - prima di tutto ed essenzialmente - attraverso i riti dei suoi ‘rappresentanti’ (siano essi rabbini, preti o imam) o nella coscienza delle persone? E la risposta dell’uomo alla parola di Dio che lo interpella passa – prima di tutto ed essenzialmente -  attraverso le labbra dei fedeli che celebrano o attraverso le mani che curano le ferite dei derelitti? E questa eventuale risposta di amore servizievole al fratello che non ha più lacrime per il suo dolore (“Non chi dice ‘Signore Signore’ entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”…), dev’essere una risposta soltanto soggettiva, individuale, o deve farsi progetto politico e azione organizzata che incida durevolmente nella storia dell’umanità? Non credo che si possa provare a rispondere con leggerezza a domande del genere. Credo però che si possa affermare che in esse consista “il vero nocciolo del problema” e che esse soltanto possano stimolare il contributo critico di quanti sono seriamente interessati a capire come va il mondo.

martedì 21 settembre 2004

MODERNITA’ E PROGRESSO


Repubblica – Palermo 21.9.04

Augusto Cavadi 


L’ambivalenza della macchina

Gli ultimi due secoli, non solo in Occidente, possono essere sintetizzati nell’immagine della “macchina”. Nella sua ambivalenza  - liberazione dalle fatiche manuali, idolo cui sacrificare le energie umane – è condensata l’ambivalenza della categoria di “progresso” e, in ultima analisi, della stessa “modernità”. Ciò spiega il titolo (“La macchina”) e il sottotitolo (“Il tema della modernità e del progresso nell’Ottocento e nel Novecento”) dell’agile volume antologico.

Paola Fertitta raccoglie intorno a questa tematica testimonianze e scritti appartenenti a discipline diverse: dalla letteratura alla storia, dall’arte alla filosofia, dall’economia alla sociologia. Forse l’apporto più penetrante –e, purtroppo, più attuale – viene da un grande cineasta. Rispondendo ad una giornalista, Clarlie Chaplin sosteneva nel 1931: “Il paese parla di proibizionismo, ma questo non serve a nutrire gli affamati. La disoccupazione è la questione vitale, non il proibizionismo. La macchina dovrebbe essere al servizio dell’umanità. Non dovrebbe causare tragedie e togliere lavoro alla gente”.

P.   FERTITTA

La macchina

Palumbo

Pagine 184

Euro 9

venerdì 17 settembre 2004

DALL’IRAN


Centonove 17.9.04

Augusto Cavadi


Il dialogo possibile anche col leader mask   

L’idea e’ partita da un padre gesuita - che adesso dirige il Centro studi “Pedro Arrupe” di Palermo - e da un gruppo di suoi amici dell’associazione culturale “Anastasis” di Roma. Nel 1999, incontrando l’ambasciatore iraniano per proporgli alcune occasioni di presentare la cultura islamica nella capitale del cattolicesimo, gli hanno chiesto per quale ragione il suo governo non desse mai un’occasione analoga a rappresentanti della chiesa. Sul momento la risposta è stata un sornione sorriso orientale, ma tre anni dopo è arrivata, del tutto inaspettata, la proposta: la Santa Sede avrebbe potuto restaurare un’antica chiesa nella favolosa città di Isfahan e, nei locali annessi, aprire sia un centro sociale per la promozione del territorio sia un centro culturale per gli scambi interconfessionali.

Così in questi giorni una delegazione, guidata dai responsabili dell’associazione culturale romana e comprendente anche tre palermitani, è tornata in Iran per tentare di mettere nero su bianco e dare concreto avviamento all’affascinante progetto interculturale. Non è stato facile far convergere su un piano di lavoro preciso i diversi interlocutori coinvolti, ma alla fine questo insolito esperimento di diplomazia dal basso ha dato i suoi frutti: le autorità governative della Repubblica islamica ed il Nunzio apostolico a Teheran si sono riconosciuti in un testo d’intesa che costituisce il primo accordo ufficiale, dal 1979 (anno di caduta dello Scià di Persia) ad oggi, fra Iran e Vaticano.
Per me, siciliano, si è trattato di un’occasione preziosa: imparare il confronto significa certamente esercitare l’ospitalità - come da decenni avviene nelle università isolane nei confronti degli studenti iraniani - ma anche visitare le terre di provenienza dell’immigrazione e cercare di capire al di là degli stereotipi.
Sin dalle prime ore, i murales giganteschi inneggianti a Khomeini e agli eroi della rivoluzione islamica, ma soprattutto stigmatizzanti gli Usa ed Israele (terribili quelli che riproducevano le fotografie delle torture subite in Iraq da prigionieri di guerra che pure, sino a qualche anno fa, sono stati nemici degli iraniani) mi avevano fatto temere un atteggiamento aggressivo  - o per lo meno diffidente - verso noi occidentali. Ma si trattava di un timore pregiudiziale infondato. Neppure una volta , alla domanda frequentissima di persone incontrate per strada circa il nostro Paese di provenienza, è seguito il benché minimo accenno di disapprovazione: “Italia? Very good. Del Piero, Baggio, Totti” (musica e sport, soprattutto dove non esistono molte altre alternative di aggregazione e di divertimento, sono linguaggi davvero universali, ma i nostri campioni di foot-ball sospettano la rilevanza pedagogica dei modelli di vita che incarnano?). Solo qualche rara volta un accenno a Berlusconi, ma per osservare - con un divertimento soverchiante il risentimento - che si tratta del “leader mask“, il capo di governo famoso nel mondo per il lifting al volto. Insomma: dappertutto curiosità e cordialità. La gente comune sa distinguere, con molta saggezza, le responsabilità morali dei governanti rispetto ai sentimenti effettivi dei cittadini.
Nessun problema, allora? Purtroppo non è così. La reciprocità del dialogo esigerebbe la condivisione di alcuni princìpi basilari: ma siamo ancora lontani. Ho esemplificato, in una corrispondenza precedente, la drammaticità della condizione femminile. Potrei aggiungere che, in una recente cena, un signore giunto dopo la nostra comitiva si è molto cortesemente avvicinato a salutare  con una stretta di mano uno per uno i maschi, ignorando totalmente (intendo dire: non rispondendo al loro saluto, non raccogliendo la mano tesa e non guardando neppure) le donne europee.
Né il quadro si configura più entusiasmante dal punto di vista dei diritti umani e della trasparenza dell’informazione. La sera della stessa cena - attraverso  la televisione satellitare-  Rai 3  dava notizia del fatto che il militare iraniano accusato di aver ucciso con percosse, l’anno precedente, una giornalista iraniano-canadese, era stato quel giorno assolto dal tribunale e che il governo si era offerto di risarcire la famiglia della vittima con una cifra simbolica pari alla metà di quanto previsto per la vita di un maschio. Ebbene, di tutto questo l’opinione pubblica iraniana  - almeno secondo i nostri sondaggi immediati - non era stata informata dai canali ufficiali locali. Forse altre due o tre anni di regime berlusconiano azzereranno le differenze attuali: ma, oggi, permangono. Persino in Italia, la lezione illuministica ci preserva dalla duplice gabbia della teocrazia in religione e del totalitarismo in politica.