"Repubblica-Palermo"
20.11.2024
Lo
scambio di opinioni fra l’ex magistrata Seminara e l’ex docente di diritto
Fiandaca, a proposito della sentenza di condanna degli autori dello stupro di
gruppo ai danni di una ragazza, è senz’altro utile al pubblico dei ‘profani’
per soppesare gli aspetti giurisprudenziali. Ma, al di là della prospettiva
tecnica, ogni processo comporta dei risvolti culturali, simbolici,
etico-politici. Da questo angolo di
visuale, a noi maschi del “Gruppo Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle
donne” preme sottolineare due o tre punti rilevanti.
Il
primo è che una severa condanna lancia un messaggio significativo: la violenza
di genere non è più sottovalutabile. Le attenuanti a favore dei colpevoli
possono essere talmente numerose da indebolirsi a vicenda (un po’ come avviene
con altre forme di criminalità, dallo spaccio di droghe all’affiliazione
mafiosa): uno viene da famiglia povera, l’altro è stato viziato da famiglia
ricca, l’altro ancora ha respirato in una famiglia medio-borghese un’atmosfera
grigia e amorfa…
Subito
dopo, però, va esplicitato un secondo punto: la condanna dev’essere severa, ma
in funzione rieducativa. La logica della vendetta (in queste ore circola una
frase orripilante del vice-ministro Delmastro sulla “gioia” di “togliere
l’aria” ai detenuti) non è solo immorale, ma anche autolesionistica perché ai
cittadini onesti conviene – utilitaristicamente – che dal carcere escano
persone che abbiano avuto modo di riflettere sulla propria vita e progettare
cammini alternativi. La realtà, come sappiamo quanti frequentiamo le carceri
per incontrare i detenuti disposti a dialogare, è ben diversa!
Dunque
il nodo centrale non è tanto la durata quanto la qualità della
detenzione: questi giovani come trascorreranno gli anni di reclusione? Saranno
impiegati in lavori utili e avranno
l’occasione di confrontarsi con altri uomini che provano a incarnare
modelli di maschilità alternativi ai più diffusi attualmente oppure, abbrutiti
dalla noia di giornate vuote, attingeranno dall’insegnamento di compagni di
prigione non necessariamente ‘pentiti’ di aver sciupato la vita? Sette/otto
anni sono troppi se trascorsi per incarognirsi, troppo pochi se
investiti per imparare che il rispetto per le donne è il primo segno
dell’onore maschile.
Un
ultimo aspetto riguarda l’opportunità di indagare lo stile di vita della
“vittima” per valutare eventuali ambiguità di comportamento. Ammesso che una
ragazza sia non solo poco netta nel rifiutare un rapporto sessuale, ma
addirittura consenziente: tale atteggiamento legittima la sua “utilizzazione
finale” da parte del maschio lucido, ricco o, in qualsiasi accezione, potente?
Non sono in grado di pronunziarmi sulla normativa attuale, ma se essa
prevedesse davvero delle attenuanti per l’abusante dimostrerebbe di essere
arretrata rispetto alle punte più evolute della coscienza civile attuale.
Infatti, se è vero che la maggior parte dei maschi ritiene moralmente
accettabile ottenere con qualsiasi mezzo – tranne la violenza fisica – i favori
sessuali altrui, è anche vero che movimenti diffusi da decenni in tante città
(come “Maschile plurale”) ripudiano questa mentalità patriarcale, maschilista,
fallocentrica e lavorano per una maschilità alternativa contrassegnata da una
convinta parificazione di dignità fra i generi. Come abbiano ragionato i
giudici lo sapremo a sentenza pubblicata, ma possiamo augurarci che abbiano
sollecitato il diritto vigente (ius conditum) in direzione di un diritto
da perfezionare secondo il progresso civile (ius condendum).
Augusto Cavadi