lunedì 4 novembre 2024

l'IGNORANTOLOGIA DI DAVIDE MICCIONE: VOLUME SECONDO


Il volume di Davide Miccione, La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura (Valore italiano editore, Roma 2024) , può essere apprezzato da più angolazioni. Intanto, a primo approccio, risulta piacevole da leggere: che un saggio di denunzia, dettato dallo sdegno,  sia scritto con stile brillante (e, perciò, accattivante)  non è pregio da poco. Inoltre, attraverso un linguaggio amaramente umoristico, veicola considerazioni serie e lancia allarmi tanto più preziosi quanto meno frequenti nel discorso pubblico.

Infatti, riprendendo e completando il suo precedente Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo (Ipoc, Milano  2015 e poi LetteredaQalat, Caltagirone  2022), quasi a voler comporre un trattato in due tomi di “ignorantologia”, l’autore indaga sulle cause radicali del “declino cognitivo” registrabile nella società italiana (in linea, ovviamente, con quanto accade nell’area nord-occidentale del pianeta, di cui condividiamo i pochi pregi e i molti difetti).

Le famiglie, le organizzazioni sindacali, le associazioni di portata nazionale, i politici in servizio permanente effettivo hanno certamente una porzione di responsabilità (Miccione avrebbe potuto senza difficoltà aggiungere alla lista la Chiesa cattolica nella quale, tranne in pochi studiosi, la fides ha da tempo smesso di cercare l’ intellectus), ma è evidente che il ruolo decisivo è svolto dalla scuola (intesa complessivamente come sistema della formazione dei cittadini dalla scuola primaria all’università). Forse il nocciolo del ragionamento dell’autore si potrebbe tradurre e sintetizzare a partire dall’etimologia del vocabolo “scuola” che in greco suona skolé e significa propriamente otium. La scuola nasce come uno spazio di quiete, di libertà, di gratuità in cui formarsi e formare le nuove generazioni, al riparo dagli affanni e dagli affari della vita sociale, nella speranza che – quando sarà il momento di immergersi nel caos della storia – si abbiano gli strumenti per giudicare criticamente e per proporre riforme (e/o rivoluzioni) necessarie. Che cosa è diventata grazie all’opera di ministri di ogni area partitica negli ultimi decenni? La negazione dell’ozio: un unico, affollato, chiassoso neg-otium. Invece di interpretarsi come coscienza critica della società, la scuola si configura come una palestra che prepara ad entrarvi.

Miccione vede in questa degradazione l’effetto di un disegno politico perverso, ma non ne sarei così sicuro. I politici di professione che ho conosciuto un po’ più da vicino – tranne rarissimi casi -  non mi sembrano attrezzati per un’impresa così impegnativa: infatti, anche quando non mancano le doti intellettuali, difetta in loro  l’attitudine alla riflessione, alla ponderazione, al vaglio dei pareri degli esperti (per la quale sono  necessari silenzio e tempo). Più che progettare strategicamente, mi pare che i ministri sino avvicendatisi in viale Trastevere abbiano assecondato il vento delle mode pedagogico-didattiche. D’altronde è lo stesso Miccione, in altra parte del libro, a notare come “un parlamentare, un sottosegretario, un ministro non decidono nulla. Accordi, trattati, commissioni europee, authority e organismi internazionali hanno già deciso la direzione politica da seguire” (p. 140).

Naturalmente nelle nuove proposte non tutto è da buttare come non era tutta aurea la scuola che abbiamo frequentato negli anni 50-60 del secolo scorso: il taglio pamphlettistico del libro ha probabilmente dissuaso l’autore dal sottolineare il positivo del nuovo e il negativo dell’antico, come sarebbe avvenuto in un’analisi più scientificamente asettica.

Il cuore del sistema è comunque nella classe docente che viene preparata, selezionata, assunta e mantenuta in servizio sino alla quiescenza in nome di un patto tacito: vi paghiamo poco, ma – dal punto di vista qualitativo - non pretenderemo nulla in più di ciò che ognuno/a vorrà dare. Con il risultato macchiettistico che solo a chi è estraneo al mondo della scuola può risultare inverosimile: “Il professore di filosofia a disagio con i testi di filosofia o il professore di lettere che non legge mai un libro o quello di latino che il poco latino che aveva lo ha visto arrugginirsi irrimediabilmente, sono figure più diffuse di quanto si pensi. Ovviamente si trovano in un sistema che chiede loro di rinnovare la didattica in senso tecnologico e orizzontale, oppure di occuparsi di monitoraggi, test, burocrazia, sicurezza e inclusione e mai di letteratura o filosofia o latino” (p. 88).

La situazione non è meno grave se il cannocchiale si sposta dalle scuole medie all’università dove – per un complesso convergente di cause – neppure i docenti (e, di conseguenza, gli studenti) riescono a costituire un’eccezione rispetto a quel “popolo di frenetici informatissimi idioti” di cui Franco Ferrarotti ha offerto la sociologia (p. 135).

La conclusione del volume non invita all’ottimismo, ma forse solo la durezza delle diagnosi può indurre a cercare con solerzia le ipotesi terapeutiche: “A meno di non essere già stati contagiati dal morbo idiocratico non si può far finta di ignorare che ogni anno che passa muoiono uomini formati da altri uomini e diventano adulti individui che sono stati formati alla vita e all’interazione umana da realtà artificiali e non da altri esseri umani; che hanno fissato uno schermo ben più di quanto abbiano guardato il volto di un altro (…). Quale livello di malafede o di integrazione al sistema o di stupidità si deve raggiungere per pensare che un cambiamento simile non produca nulla di radicalmente diverso e forse mostruoso?” (p. 160).

Se saggi come questo dovessero trovare accoglienza pletorica, proprio l’eventuale successo editoriale rischierebbe di costituire una smentita della denunzia in essi contenuta. Ma sarebbe triste se non entrassero a far parte della biblioteca privata di quanti – forse con presunzione, certo con sconforto – sono convinti che i drammi della storia che stiamo attraversando dipendono non da troppa teoria, bensì da teoria troppo poco critica.

Augusto Cavadi

* Per la versione originale, corredata iconograficamente, cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/lespansione-dellignoranza/

venerdì 1 novembre 2024

GESU’ DI NAZARETH: COSA RESTA DOPO LA CRITICA BIBLICA?

 Negli ambienti cristiani, soprattutto cattolici, lo studio scientifico dei testi biblici è stato ostacolato in tutti i modi. E a ragione. Se si ritorna alle fonti con gli attrezzi della critica moderna (come l’umanesimo rinascimentale aveva provato con intellettuali del calibro di Lorenzo Valla, Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdam) tutto l’impianto dogmatico e sacramentale delle Chiese così come si sono configurate - almeno dal IV secolo in poi – crolla.  Bisogna scegliere: o ci si aggrappa al cristianesimo della catechesi tradizionale perché suona confortevole, rinunziando a indagarne le radici storiche, o si è disposti a ricominciare dall’inizio con l’entusiasmo e la totale incertezza di chi sa che sta aprendo cammini inediti.

I fedeli del primo orientamento proveranno solo fastidio a leggere Il volume Gesù, questo sconosciuto. Cosa sapere prima di credergli o di rifiutarlo (Edizioni Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, pp. 322, euro 28,00), scritto dal magistrato di Cassazione, ora in quiescenza, Dario Culot. Per chi è già incamminato nella direzione alternativa di una rifondazione del cristianesimo a partire dal Gesù del Secondo Testamento, invece, vi troverà preziose indicazioni sia dal punto di vista destruens  che, soprattutto, dal punto di vista construens.

 

L’ottica della de-costruzione

Sin dalla Presentazione l’autore chiarisce, con il tono colloquiale ma non banale che caratterizza queste pagine, il primo dei suoi due obiettivi:

 

“Quello che qui cercherò allora di fare è togliere a Gesù quel mantello dorato che il magistero cattolico gli ha messo addosso, facendo vedere che neanche la Chiesa-istituzione è in grado di dire con certezza: «io so chi tu sei! Tu sei vero Dio e vero uomo». Immaginiamo cioè, per un attimo, che Gesù arrivi oggi in mezzo a un gruppo di vescovi a Roma, e riproponga la stessa domanda che aveva fatto a Pietro: «Chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Tutti questi vescovi all’unisono risponderebbero, in coro, (…) : «Tu sei la seconda persona della Trinità, l’unione ipostatica della divinità e dell’umanità, tu incarni due nature nella tua unica persona (divina)». Ma siamo poi così sicuri che Gesù non resterebbe sbigottito davanti a questi astratti discorsi teologici che lo riguardano, e magari replicherebbe:  « Ma cosa state dicendo? Non capisco». Non vi sfiora mail il dubbio che, a volte, non sia stata proprio la teologia, nel corso dei secoli, a deformare il Vangelo? ” (p. 9).

 

Ogni esplorazione dell’identità dell’uomo Gesù dovrebbe partire dai “pochi dati di fatto assodati” che si riscontrano nei vangeli (canonici ed extra-canonici) pervenutici:

 

“Gesù non ha mai detto chi è, non ha mai dato definizioni di se stesso (…). Quindi l’affermazione che Gesù Cristo è figlio di Dio, nel senso che ha la stessa natura di Dio, è una professione di fede imposta dalla Chiesa, ma non c’è prova alcuna che lo possa dimostrare” (p. 21).

 

Paolo sostiene che l’uomo Gesù è costituito “messia” (o nella traduzione greca “signore”) (cfr. p. 57) dopo la morte; Marco e Giovanni anticipano questa consacrazione al momento del battesimo sul Giordano per mano di Giovanni Battista; Matteo e Luca addirittura prima della sua nascita (cfr. p. 58). E’ ragionevole supporre che in queste differenti modalità si sia espressa la convinzione della Chiesa primitiva sul fatto che “un uomo di nome Gesù ha raggiunto la pienezza della condizione umana e per questo è entrato nella sfera della condizione divina” (p. 57).

 

 

L’ottica della ri-costruzione

Ma se Il Gesù della cristologia pre-nicena (=  anteriore al Concilio di Nicea del 325 d.C.) non è Dio in senso ontologico, che ha da dirci ancora oggi? Passiamo così all’obiettivo construens propostosi dall’autore con questo intrigante volume.

 

a)     La religione – la sua religione di appartenenza anagrafica e, per analogia, ogni religione in quanto tale – va sostituita con una proposta alternativa:

 

“Dobbiamo renderci conto che il progetto di Gesù da una parte, e il progetto della religione dall’altra, sono due progetti che non hanno potuto conciliarsi né armonizzarsi. Questo vuol dire che si tratta di due progetti incompatibili. E sono incompatibili perché nel progetto della religione il centro determinante di tutto sta nel sacro, con la sua dignità, il suo potere, le sue norme, le sue proibizioni; invece nel progetto di Gesù il centro di tutto sta nell’umano, nel rispetto verso tutti, siano o non siano religiosi, abbiano o non abbiano credenze, siano persone buone o cattive, siano ortodossi o eterodossi, siano ebrei, musulmani o cristiani. Ed è anche un progetto che ha il suo centro nella dignità e felicità delle persone, nella gioia di vivere, nel piacere e nel godere di tutto il bello e il buono che Dio ha messo nella vita. Invece, grazie all’insegnamento che abbiamo ricevuto, quando si parla di Dio, per la gente è più facile associare Dio al dolore, alla sofferenza, alla penitenza piuttosto che associarlo alla felicità, alla gioia, all’allegria. Associare Dio al piacere sembra  quasi una bestemmia” (p. 195).

 

b)     E’ nota l’obiezione a questa prima notazione cristologica: così non si “riduce” il vangelo a mera filantropia ?

Si potrebbe rispondere che se una proposta di vita non è “almeno” filantropica non è degna di essere accolta ragionevolmente. Il cristianesimo dogmatico-istituzionale non è stato certamente contrassegnato da univoco filantropismo e sino ai nostri tempi assistiamo a conflitti di matrice teologica (o almeno sbandierati come tali) fra confessioni cristiane diverse (ad esempio cattolici e protestanti in Irlanda) o addirittura all’interno della stessa confessione (ad esempio fra ortodossi russi e ortodossi ucraini).

Ma anche nell’ottica delle fede tradizionale, a partire dal Secondo Testamento, l’amore “orizzontale” verso il prossimo è stato considerato segno autenticatore dell’amore “verticale” verso l’Invisibile: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giov. 13, 34 – 35).

Culot, però, sulla scia di alcuni predecessori, va oltre. L’amore per l’umanità non è solo il presupposto minimo di qualsiasi eventuale proposta teologica né soltanto il banco di prova dell’autenticità di ogni eventuale unione mistica con il Divino: egli sostiene che è proprio in quanto essere-per-l’altro che Gesù rivela il massimo del pochissimo che possiamo conoscere di Dio. Insisto un po’ su questo passaggio che mi risulta particolarmente originale.

c)      La “regola d’oro” di tantissime etiche è di fare agli altri ciò che si vorrebbe da loro, dunque del bene in tutte le modalità necessarie e opportune. Ma secondo i vangeli la prassi amorevole di Cristo possiede un significato originale, peculiare: essa allude, esprime, rende  percepibile qualcosa dell’atteggiamento di Dio stesso verso l’umanità. Essa veicola il messaggio che

 

“non è vero che Dio discrimina le persone e allontana da sé gli impuri e i peccatori, ma l’amore di Dio è rivolto a tutti” (p. 56).

 

d)     Troppo poco questo sull’identità divina? Indubbiamente meno di quanto la Chiesa abbia avuto la pretesa di raccontare:

 

“Quando si parla di Dio, sembra che la Chiesa sappia tutto: è l’Essere Spirituale Perfettissimo, Soprannaturale (cioè collocato su un piano superiore), Trinitario, Onnipotente, Maschile, Creatore del cielo e della terra, Salvatore, Redentore, Liberatore, Giudice severo ma giusto. Io preferisco la definizione di Dio tratta dalle Upanishad vediche indiane: Non questo, non quello, perché non si può prendere, non si può legarlo, non si può trattenerlo.

L’antica India da millenni c’insegna che, se arriviamo ad avere un concetto preciso e definitivo di Dio, se lo definiamo, questo non è più Dio. E’ solo una rappresentazione di Dio che noi ci siamo costruiti nella nostra mente, perché  Dio resta misterioso” (p. 7).

 

e)      Questo “poco” assomiglia a quel che un animale domestico di compagnia, o anche un neonato, sa (o meglio sente) di un adulto umano che lo abbia preso in carico: di essere in buone mani.

 

“Probabilmente anche noi dovremmo fermarci qui nel nostro rapporto uomo-Dio: Gesù, divulgando la Buona notizia, ci ha fatto sapere che Dio ci ama e che ci si può fidare di Lui; non molto altro ci ha detto Gesù di Dio in tutta la sua vita. Tutto il resto ce l’ha detto il magistero. A questo punto sarebbe forse meglio fare come aveva ammonito Ludwig Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» ” (pp. 7 – 8).

 

Obiezioni a Dario Culot

Poiché il discorso di Culot è indubbiamente di grande rigore logico e di altrettanto grande onestà intellettuale invita il lettore a reagire con proporzionale senso critico e a formulare delle domande.

Molte obiezioni, perplessità, vere e proprie aggressioni egli le ha effettivamente registrate negli incontri pubblici e nella corrispondenza privata durante gli anni precedenti alla pubblicazione di questo testo. Alcune di queste osservazioni critiche sono state raccolte nella Parte II del volume (pp. 197 – 320): ad esempio, dal momento che “la formula Gesù è vero Dio e vero uomo è dogmatica, e non è lecito mettere in discussione un dogma”, “come fa a mettere in dubbio un dogma ?” (p. 228); oppure: “Lei dice che Dio si manifesta in Gesù, senza che Gesù sia Dio, e che Gesù non ha mai detto di essere Dio. Ma come è venuta allora fuori, fra i cristiani, l’idea della divinità di Gesù che Lei nega?” (p. 299).

Le domande riportate nel libro, a cui l’autore risponde con molte pagine in maniera sempre pacatamente argomentativa, provengono tutte da un pubblico di cattolici credenti e praticanti. Evidentemente ne sono possibili altre da versanti ‘esterni’ all’ambito cattolico[1] e, in particolare, mi pare se ne imponga una centrale. Per Culot del Mistero che chiamiamo Dio non sappiamo nulla, tranne quel pochissimo/moltissimo che ce ne ha raccontato Gesù di Nazareth: che non è un Principio antropomorficamente raffigurabile come sovrano giusto e implacabile, ma una Fonte inesauribile di tenerezza, cura, misericordia. Questa “buona notizia” (evangelo) è frutto non di un’autorivelazione di Dio (come si affermava quando si vedeva in Cristo l’incarnazione della Parola stessa divina) bensì dell’intuizione teologica di un rabbi palestinese (dalla vita interiore intensa e certamente informato del filone profetico biblico): dunque, la si può accogliere o meno, ma non senza sottoporla al setaccio della ragionevolezza.  Il che, nel XXI secolo, significa chiedersi se si possa credere in un Dio amorevole nonostante l’oceano di sofferenze in cui siamo immersi. Non si tratta solo, o principalmente, dei mali evitabili che l’umanità è così brava nell’infliggersi o nel non saper evitare, ma di quelle sofferenze inevitabili a cui tutti i viventi senzienti siamo esposti nel nostro pianeta (non sappiamo altrove) dalle tremende leggi dell’evoluzione. Per quanta ammirazione, simpatia, devozione si possa provare per il Maestro, come fare a condividere la sua fede in un Padre attento e benevolo che si occuperebbe di ciascun essere umano, anzi di ciascun uccello del cielo e di ciascun giglio dei campi? Tante volte ho ascoltato la risposta a questi dubbi laceranti (e talora geni sommi come Dostoevskij l’hanno saputa formulare in parole di fuoco): se Gesù si sbaglia, se l’Assoluto non è come lo presenta egli, l’alternativa logica è il nichilismo. Se a Fondamento dell’universo non c’è nessun principio Intelligente né ancor meno Amorevole, che senso ha per ciascuno di noi (ma prima ancora per la grande famiglia dei viventi senzienti di cui siamo parte) venire alla luce e, tra difficoltà e travagli d’ogni genere, trascinare un’esistenza precaria che troppo presto s’interrompe con la morte? Che valore hanno i nostri pensieri, le nostre scelte, i nostri slanci di eroismi, le nostre colpe imperdonabili… se siamo dentro un flusso senza Alfa e senza Omega? E’ certo che un tempo non esisteva l’homo sapiens, anzi neppure la vita biologica, anzi neppure il pianeta Terra; ed è altrettanto certo che tra un certo tempo non esisterà più né l’umanità né altri viventi né la stessa Terra. Tra l’inizio e la fine la somma delle sofferenze più strazianti sarà compensata dalla somma delle ore gioiose, o per lo meno serene, vissute da noi animali senzienti?

Se l’opzione è tra la “buona notizia” di Gesù e la “cattiva notizia” di Morin (“Tutti i viventi sono gettati nella vita senza averlo chiesto, sono promessi alla morte senza averlo desiderato. Vivono tra nulla e nulla, il nulla prima, il nulla dopo, circondati dal nulla durante”[2]), come negare che la seconda ha dalla sua la conferma dell’esperienza (per lo meno scientifica e collettiva se non individuale)?  Si può accogliere il vangelo solo per evitare la disperazione, il senso di angoscia e di frustrazione all’idea sartriana che “ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione”[3]? Per me filosofo sarebbe il rinnegamento radicale della tensione verso la verità.  Perciò sono convinto che - dal punto di vista teoretico, cognitivo - l’annunzio cristiano  sia irricevibile: non si può accettare una teoria dell’universo solo perché non si avrebbe la forza di vivere secondo quanto l’intelligenza – debitamente coltivata – ci attesta. L’uomo adulto del XXI secolo potrà far sua l’intuizione stupenda e incoraggiante di Gesù solo quando essa sarà integrata e supportata da un contesto dimostrativo (o per lo meno di un apparato di contro-obiezioni) che, sinora, a mia conoscenza, nessuno ha saputo offrire. Gesù per primo non ha dato, non ha voluto dare e probabilmente (estraneo com’era alla mentalità speculativa greca) non avrebbe potuto dare nessuna argomentazione razionale/ragionevole su come conciliare  l’idea di un Dio Amorevole con i disastri dolorosi che si registrano nel piccolo, nel medio e nel grande ogni volta che apriamo gli occhi sull’universo. Intesa come via verso la Verità, la fiducia esistenziale nel vangelo non solo non esclude ma – in linea di diritto – esige un lavoro intellettuale immenso e incessante (a tutt’oggi lontano dall’essere compiuto) affinché la si possa esercitare al di là della logica, non contro la logica[4]. A mio avviso, il vangelo non va ellenizzato, metafisicizzato; ma accoglierlo e provare a viverlo rientra nella sfera esistenziale, fuori della quale permangono domande ontologiche e cosmologiche cui solo la filosofia, in stretto dialogo con le scienze, può tentare di offrire risposte (ovviamente parziali e provvisorie).

 

Una possibile prospettiva interpretativa

Ma allora il cristianesimo è, ab ovo, tutto un inganno (o comunque una proposta che può risultare tanto veridica quanto ingannevole)? Nelle pagine del suo volume Culot non affronta, esplicitamente e frontalmente, questo dubbio cruciale. Però, se non erro, apparecchia tutti gli elementi per inquadrarlo da una prospettiva diversa, molto più fedele all’ottica dei primi cristiani. Infatti, finché restiamo nella mentalità critica dei figli di Atene, il nodo (almeno sino ad oggi) appare insolubile . Ma pur avendo il diritto – anzi, prima ancora il dovere – di rispettare le esigenze della ragione, possiamo anche ammettere che nelle varie culture dell’umanità sono possibili altri orizzonti, altri paradigmi. Nella mentalità ebraica di Gesù e dei discepoli, ad esempio, la preoccupazione prevalente non è di ordine intellettuale, bensì operativo. Per i figli di Gerusalemme non si tratta di convincere (se stessi e gli altri) della tesi filosofico-teologica che all’origine del tutto vi sia un Principio vitale generoso, bensì di ‘vivere’ secondo questa convinzione: di testimoniarla, di metterla a frutto nella concretezza della visibilità storica.

            Infatti,

 

“il cristianesimo non è un sistema di nozioni, bensì una via da seguire, tracciata da una persona in carne ed ossa. Ecco perché ho detto che il centro del cristianesimo è la sequela dell’uomo Gesù. Gesù, su questa terra, ci ha fatto conoscere Dio, non rivelando la vera natura del suo essere, ma vivendo in un certo modo. Quella di Gesù non è sta perciò una lezione magistrale sui concetti filosofici di ousia, physis, prosopon, hypostasis ecc., ma una storia nella quale quel modesto galileo, povero di mezzi ma ricco di umanità, ha presentato per l’appunto un progetto di umanità, è vissuto in un modo ben preciso, si è relazionato con la gente in maniera tale da attrarre alcuni e respingere altri, ha espresso con chiarezza le sue preferenze e i suoi valori ecc. In questo modo Gesù ci ha rivelato Dio, senza mai analizzare categorie metafisiche od ontologiche” (p. 62).

 

           Il Secondo Testamento vacilla quando, condizionato dalle influenze greche, vuole spiegare l’inspiegabile: come sia possibile che un Dio infintamente buono abbia potuto creare un universo dove non c’è divenire senza scarti, non c’è evoluzione senza vittime, non c’è progresso senza tragedie. Molto più convincente quando testimonia, con gesti, azioni, opere che Dio è dalla stessa parte degli esseri umani nella lotta contro il male in tutte le sue molteplici forme, senza sbilanciarsi nel (vano) tentativo di spiegare l’origine e il senso di questa lotta millenaria. Se Dio è il Creatore dell’universo, se “esso è suo possesso assoluto ed egli ne è il Signore assoluto” (p. 59), ci è debitore di molte risposte sulla inesauribile miniera di dolore da cui l’universo sembra attingere il combustibile per vivere e progredire. Con Gesù queste risposte non arrivano, ma “questo concetto di Dio cambia, perché egli ci presenta Dio in modo completamente nuovo: Dio non è più il padrone assoluto, ma è il servitore, o meglio il diacono della vita: «Io sono venuto per servire e non per essere servito» (Mc 10,45)” (p. 59). Gesù si fa – o per lo meno viene interpretato dai primi discepoli – come icona, plastica e vivente, del Mistero invisibile,

 

“non inculcando dogmi, non imponendo di credere al catechismo, non imponendo pratiche religiose. L’ha fatto, da vero servitore della vita, chiamando alla vita, mostrandosi più umano e rendendo anche gli altri non più religiosi, ma più umani, perché quando siamo pienamente umani diventiamo anche noi – come lui – un canale di ciò che è pienamente divino, di quell’amore misterioso che diffonde la vita” (pp. 63 – 64).

 

Essere cristiano oggi

Se essere cristiano oggi non significa appartenere necessariamente a una determinata Chiesa (in senso istituzionale) né condividere un’idea chiara e distinta del Mistero divino né avere ragioni a supporto della fede nella Bontà divina (poiché, se tali ragioni ci sono, è in quanto pensatore che può trovarle, non in quanto credente), cosa resta di specifico?

In un certo senso, nulla. Il cristiano non è un tipo particolare di essere umano: è uno di quei  “laici” (= membro del popolo, della grande famiglia terrestre) che vogliono capire se la vita ha un senso e, sul versante etico, liberarsi e liberare i simili da ogni dis-umanità.

In un altro senso, il cristiano è caratterizzato in maniera peculiare, se non addirittura esclusiva. Egli si auto-interpreta come uno che, sulle orme di Gesù, nel perseguire la pienezza umana, in sé e negli altri, ritiene di rendere visibile e tangibile nella storia l’Amore originario che chiamiamo anche “Dio”. Egli dà un’interpretazione specifica e speciale alla sua prassi (che, in quanto prassi agapica, è potenzialmente condivisibile da ogni altro essere umano), ma sapendo che a costituire il fattore basilare e prevalente sia la prassi, non certo l’interpretazione che di essa ne dà:

 

“La comunità cristiana non può e non deve essere un circolo intellettuale, dove si discute di argomenti teologici astratti, magari anche molto profondi e interessanti, disancorati però dal Vangelo che, lungi dall’essere una dottrina, è una testimonianza di una comunità che si è vista trasformata dalla sequela di Gesù, cioè da un’esperienza che ha vissuto stando accanto a Gesù, attraverso la quale ha scoperto che Gesù è il Messia atteso, il Figlio di Dio (Gv 20, 31) in senso messianico. Da questa esperienza nasce la volontà di continuare su quella strada” (pp.55 – 58).

 

Una strada che può portarci molto più in là dell’essere “servi fedeli” di Dio, ma “amici”, anzi “figli” del Padre (Gv 15,15):

 

“Sequela significa voler assumere la forma di Gesù, che vediamo come la miglior forma di uomo possibile. Sequela è allora credere non ai dogmi, ma che il Dio di Gesù è al nostro fianco – se uno lo vuole – per aiutarci a raggiungere quella forma che ha assunto il figlio. (…) Il progetto della sequela di Gesù è il progetto della libertà al servizio della misericordia. In questa formula si trovano il cuore stesso del Vangelo e la sua sorprendente attualità” (p. 56 con rimando a un commento di J. M. Castillo a Lc 9, 51 – 62).

 

“Senza sequela non si è discepoli. Gesù chiede adesione alla sua persona, non a dottrine, sì che la conoscenza di Gesù è pratica quotidiana, è farsi plasmare dai suoi comportamenti, non è conoscere la dottrina cristiana insegnata dalla Chiesa e poi credere che questa conoscenza ci salvi” (p. 64).

 

Più di una volta ho ascoltato da parte di cattolici istruiti (per la verità più nelle discipline professionali che in teologia) che questo identikit del cristiano sarebbe d’impronta irrazionalistica e basato su una visione riduttiva e fuorviante del Gesù storico. In effetti egli era anche un rabbi, un conoscitore delle Scritture e un predicatore efficace né abbiamo prova alcuna di una sua postura anti-intellettuale. Chi si appella ai vangeli per attaccare il dono e la responsabilità della ricerca teoretica, del pensiero metodico, o è poco informato o è in cattiva fede. Solo che – in sintonia con la mentalità ebraica – egli ha giocato un altro gioco ed ha scelto di essere (o per lo meno così è stato recepito) uno che parla facendo, che annunzia attraverso gesti concreti, che predilige la testimonianza rispetto all’insegnamento. E’ per questo che un fisico nucleare o un compositore musicale, un filosofo o un politologo possono benissimo essere bravi cristiani, ma non grazie alla musica che producono o alle scoperte che realizzano: la loro “fede” sarà valutabile sul metro dell’agape, della donazione costante, della generosità nell’impegno per il bene comune. Dunque non necessariamente sarà nota ai contemporanei, prossimi o lontani. Don Cosimo Scordato, un amico che ha insegnato per decenni teologia sistematica, adesso che come noi coetanei sta tirando un po’ le somme di una lunga e appassionata ricerca, è pervenuto alla conclusione che, dal punto di vista biblico, sarebbe preferibile sostituire alla dicotomia credente/non credente il binomio amante/non amante.

In ogni caso la sequela cordiale e pro-attiva non può identificarsi, come per secoli ha insegnato la Chiesa cattolica, con una separazione fisica dal contesto sociale (per esempio scegliendo l’eremitaggio o entrando in un ordine cenobitico)[5]:

 

“Il vero dilemma posto da Gesù non consiste nello scegliere tra l’amore a Dio e l’odio per il mondo terreno []. Il vero dilemma è scegliere fra la nostra «umanità disumanizzata o l’umanità piena» sempre presente in Gesù. In questo punto stiamo toccando il nocciolo stesso della sequela di Gesù. Seguace di Gesù è solo chi è pienamente umano così da superare e vincere ogni possibile disumanizzazione (Lc 14, 25). Nulla dunque di astrattamente religioso, ma tutto concretamente terreno e profano” (p. 66).

 

Un’ultima annotazione mi pare opportuno aggiungere per restituire l’affresco di Culot in misura meno incompleta.

Per chi si ritiene cristiano, il rapporto con il Divino passa, anche e soprattutto, attraverso la partecipazione alla prassi di Gesù e dei suoi più fedeli seguaci nei secoli: ma questa fede attiva, operativa, non ha nessuna pretesa di esclusività[6], dal momento che ogni essere umano può trovare i suoi canali per unirsi all’Assoluto (o per prendere consapevolezza del suo esser-già-da-sempre in rapporto con l’Assoluto). Questa apertura mentale, opposta a ogni tendenza fondamentalista, il cristiano la adotta non per cedimento alle mode relativistiche che tanto preoccupavano papa Benedetto XVI (come se fosse “irragionevole affermare che tutto nella storia è relativo, tranne Dio”, p. 41), quanto per fedeltà al magistero gesuano che, stando ai testi evangelici,

 

“rifiuta ogni assolutismo che cerca di monopolizzare come l’unica via di accesso a Dio la propria: ecco perché Dio non va adorato né nel monte Garizim come facevano i samaritani, né a Gerusalemme come facevano i giudei, essendo invece entrambi sicuri di essere gli unici adoratori del vero Dio (Gv 4,21). L’importante è essere aperti e pronti ad accogliere lo Spirito, come fanno la donna siro-fenicia (Mc 7, 26 ss) o il centurione pagano (Mt 8, 5 ss). La fede può essere grande anche senza profonde comprensioni teologiche e senza grandiose celebrazioni. E agli apostoli, che non avendo capito nulla di Gesù vogliono proteggere il monopolio di essere solo essi gli unici veri seguaci di questo maestro, Gesù dirà: «Chi non è contro di voi è con voi » (Mc 9, 40) (p. 54).

Augusto Cavadi

La versione originaria, con apparato iconografico, a questo link:
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gesu-di-nazareth-cosa-resta-dopo-la-critica-biblica/

[1] Ad esempio ci sarebbe da discutere a fondo se davvero si possa prevedere/auspicare la fine di ogni religione in quanto tale o se non sia più realistico concentrarsi sulla revisione radicale delle religioni storiche dal momento che, ogni volta che si è tentato di cancellarle (come nei regimi totalitari di Destra e di Sinistra nel XX secolo), sono state sostituite da nuove strutture religionali ancora più dogmatiche, disumane e intolleranti delle antiche.

[2] E. Morin – A.B. Kern, Terra – patria, Cortina, Milano 1994, p. 104.

[3] J. P. Sarte, La nausea, Mondadori, Milano 1965, p. 191.

[4] Culot stesso, che pur denuncia più di una volta (con ragione) l’ellenizzazione metafisica del cristianesimo, ogni tanto avverte la necessità di supportare il kerigma evangelico con delle considerazioni filosofiche: “Dobbiamo convincerci che Dio, come creatore, offre possibilità, ma non si sostituisce alle creature. E tutte le cose create sono limitate: non solo l’uomo, ma tutta la natura è limitata, per cui la materia in sé non può esistere per sempre, e anche il male della natura (terremoti, frane) si spiega con questa limitazione” (p. 101). Purtroppo queste considerazioni mi sembrano sufficienti per conciliare l’idea di un Dio-Amore con i limiti fisici delle “creature”, ma non con le atrocità che da milioni di anni accompagnano l’evoluzione degli esseri senzienti, sino alle malformazioni genetiche dei neonati odierni. Sulla scia di Tertulliano o di Kierkegaard si potrebbe dire che la visione del mondo cristiana va accettata nonostante sia assurda, anzi proprio perché assurda: ma è un “sacrificio” dell’intelletto che molti (Culot compreso) non riteniamo di poter consumare per rispetto della nostra dignità e dell’eventuale Creatore che – attraverso le vie dell’evoluzione – ce ne avrebbe fatto dono.

[5] Vedi in proposito la lettura critica della vicenda di Tommaso Moro in H. Küng, Libertà nel mondo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2014.

[6] Culot cita in proposito una poesia di Tagore (pp. 69 – 70) e un detto attribuito al celebre monaco buddhista Thich Nhat Hanh: “Il vero miracolo non è camminare sull’acqua o camminare nell’aria, ma semplicemente camminare su questa terra e farla fiorire dove sei passato” (p. 69).

mercoledì 30 ottobre 2024

PERCHE' AI CORTEI PER LA PACE NON SIAMO MAI ABBASTANZA ?

 Sabato 26 ottobre in 7 grandi città italiane si sono snodati altrettanti cortei per la pace. Secondo le stime su cui si registra maggiore convergenza si sono lasciate coinvolgere circa 80.000 persone: poco più di una ogni mille. Perché 998 e mezza sono rimaste a casa?

Le domande impegnative non ammettono risposte facili. Si possono sono cucire ipotesi parziali per tentare di avvicinarsi alla spiegazione più vera.

Parzialità per parzialità, cominciamo dal dato locale della nostra città: a Palermo, contando anche chi è arrivato dopo l’inizio e chi è andato via prima della fine, saremo stati tra 2000 e 2500 partecipanti. Dunque, in rapporto al numero degli abitanti,  al di sotto della media delle altre città. Come mai?

a)     Una prima considerazione riguarda l’overdose di cortei nel giro di tre giorni: il 25 contro il disegno di legge sull’ordine pubblico, il 26 appunto contro le guerre, il 27 contro la legge che sanziona la gravidanza per altri. A meno che uno non sia un manifestante di professione, sceglie per uno o due cortei al massimo; non certo per l’en plein.

b)     Una seconda considerazione riguarda l’opportunismo di cui siamo affetti a ogni età sin da giovani: per gli studenti delle scuole medie superiori, aderire al corteo di venerdì 25 significava risparmiarsi 5/6 ore di lezioni, mentre sabato 26 si sarebbe dovuto sfilare gratis et amore pacis. Per carità, niente moralismi: ma, per lo meno, evitiamo l’illusione della retorica giovanilistica. Gli adolescenti non sono né peggiori né migliori degli adulti e vedere in loro “la speranza del mondo di domani” significa condannarsi alla delusione.

c)      Giovani o adulti, siamo abbastanza svegli da sapere che un corteo in più non modifica le decisioni del Parlamento e del Governo (tanto meno quando queste istituzioni sono state consegnate dalla maggioranza degli elettori a politici non particolarmente inclini alle dinamiche della democrazia). Personalmente sono andato, come vado altre volte, senza molta convinzione: più per evitare il fallimento della manifestazione che in previsione di effetti concreti. Ma se si vuole evitare l’effetto boomerang (chi è d’accordo con l’andazzo attuale della Nato e della Commissione Europea in giù potrà gongolare puntando sulla stragrande maggioranza della popolazione rimasta in poltrona) bisogna centellinare strategicamente l’indizione di manifestazioni di questo genere: poche, pochissime all’anno – e solo quando si riesce a trovare un accordo preventivo fra la quasi totalità delle grandi organizzazioni popolari (non accontentandosi del pur preziosissimo apporto di un sindacato su tre). Mille cortei da mille persone non equivalgono a un corteo di un milione di persone, ma costituiscono  mille assist per chi tifa sugli spalti opposti.

d)     Questi conteggi aritmetici vanno fatti, ma a patto di non monopolizzare l’attenzione sull’aspetto quantitativo: prioritariamente – anche in funzione di eventuali espansioni numeriche future – c’è una questione qualitativa. Detto schematicamente: quale livello di consapevolezza culturale, etica e politica sul tema della guerra, della pace, della nonviolenza si può ragionevolmente supporre nella media dei partecipanti a questo genere di cortei ? “Vogliamo la pace” è uno slogan insidioso: può essere gridato da punti di vista non solo diversi (che sarebbe un bene), ma addirittura opposti. Se poi si aggiungesse la richiesta di proporre alcuni mezzi per raggiungere il fine comune, si registrerebbe la babele delle lingue. Ma senza questo minimo di chiarezza teorica e di conseguente convergenza operativa (a cominciare dal proprio ambito di vita: la relazione con il proprio partner o con i membri della propria organizzazione) non si può prevedere il rivolgimento radicale di cui c’è assoluta esigenza. Per ciò che risulta a quanti di noi si impegnano, tra una manifestazione e l’altra, nella informazione e nella formazione delle coscienze – anche in nome delle associazioni pacifiste e nonviolente nazionali e internazionali di cui facciamo parte – la domanda di consapevolezza, di conoscenza, di approfondimento critico da parte delle scuole, dei sindacati, dell’associazionismo laico e cattolico è quasi inesistente. Ma le case si costruiscono dalle fondamenta, non dalle tegole e dai caminetti: se dirigenti di partiti e di sindacati, animatori di associazioni e di movimenti, giornalisti e artisti, insegnanti e preti… non avvertono l’urgenza dell’auto-formazione e della formazione delle persone che gravitano intorno a loro, c’è poco da sperare in un incremento della partecipazione popolare.

 

Augusto Cavadi

Co-direttore, con Adriana Saieva, della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo

 

Versione originale qui:

https://www.girodivite.it/Perche-ai-cortei-per-la-pace-non.html

30.10.2024

lunedì 28 ottobre 2024

PER RISCOPRIRE L’ATTUALITA DELLA “DIVINA COMMEDIA”

 Dante Alighieri era un cristiano che ha composto la Commedia da cristiano per lettori cristiani. Eppure la geniale profondità dello sguardo ha fatto sì che egli abbia parlato, in questi sette secoli, a persone di ogni religione, cultura, etnia, orientamento politico: ad esempio  a Karl Marx che lo cita – in italiano ! – perfino nel Capitale. Ha da dire qualcosa anche alle donne e agli uomini del nostro  tempo? Maurizio Muraglia ne è convinto e, per dimostrarlo, ha pubblicato Cento finestre sull’umano. Parole dantesche tra passato e presente (Di Girolamo, Trapani 2024, pp. 138, euro 15,00): un’originale raccolta di terzine – una per ogni pagina, secondo il percorso dall’Inferno al Purgatorio sino al Paradiso – in ciascuna delle quali spicca una parola-chiave (“paura”, “desiderio”, “festa”, “donna”, “riso”, “luce”…). L’autore si assume, inoltre, il compito di ‘tradurre’ in italiano corrente i versi di Dante e di suggerirne un’interpretazione attualizzante.

Tra i molti esempi possibili, ne segnalo tre che mi son sembrati particolarmente eloquenti.

Ad  esempio, nel canto XII dell’Inferno, ai versi 49 – 51, leggiamo: “Oh cieca cupidigia e ira folle,/ che ci sproni ne la vita corta,/ e nell’etterna poi sì mal c’immolle!”. Muraglia parafrasa: “Oh cieca brama e ira folle, che tanto ci pungoli nella breve vita, e poi nella vita eterna ci tieni a mollo in modo così penoso!”. Infine aggiunge una quindicina di righe di commento che si concludono con il riferimento al contesto contemporaneo: “Ci si può adirare o indignare, dipende da come si guarda il mondo. Qui l’ira discende dallo sguardo che divora, perché l’altro è un ostacolo alla propria voracità per il solo fatto di esistere. Lo disse Sartre: l’inferno sono gli altri” (p. 27). Non è difficile, verrebbe da osservare, distinguere l’ira (che scatta per difendere il proprio io e le proprie cose) dall’indignazione (che esplode per difendere il Bene comune e la dignità di tutti).

Nel canto XIX del Paradiso, i versi 106 – 108 recitano:  “Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’,/ che saranno in giudicio assai men prope/ a lui, che tal che non conosce Cristo”. Agevole la trasposizione nell’italiano dei nostri giorni: “Ma vedi: ci sono molti che gridano ‘Cristo, Cristo!’, e che nel giudizio saranno molto meno vicini a lui di altri che non conoscono Cristo”. Così, infine, le righe finali del breve commento: “Oggi il credente ed il non credente concordano nel giudizio positivo verso chi vive con vera e piena umanità, quale che sia il suo orientamento religioso. Qui, per bocca dell’aquila, il credente Dante azzarda con radicalità evangelica ancora di più: molti, che si riempiono la bocca di Cristo, in giudizio saranno molto meno vicini a Dio di chi Cristo neppure lo conosce” (p. 108). La mente va, spontaneamente, a quei politici di ieri e di oggi che esibiscono i simboli dell’appartenenza cattolica (pur vivendo in palese contraddizione con le norme ecclesiali) pur di rastrellare i consensi elettorali dei bigotti. 

In un momento storico in cui il pianeta è dilaniato da decine di conflitti bellici, alcuni dei quali (pensiamo a Russia e Ucraina o al governo di Israele contro il regime di  Hamas) particolarmente eclatanti, non si può restare colpiti dalla terzina 151- 153 del XXII canto del Paradiso: “L’aiuola che ci fa tanto feroci,/ volgendom’io con li etterni Gemelli,/ tutta m’apparve da’ colli a le foci” (“L’aiuola che ci rende così feroci, volgendomi con l’eterna costellazione dei Gemelli, mi apparve tutta intera dai monti alle estreme rive”): “Dante rivede tutti i cieli da una prospettiva di distanziamento, simboleggiata dalle stelle, in particolare dalla costellazione dei Gemelli, suo segno zodiacale e talento nativo. Riappropriandosi di se stesso nel purgatorio, e immerso nella totalità del cosmo, Dante vede la terra come un’aiuola, l’aiuola della ferocia e della disumanizzazione” (p. 111).

E’ forte la tentazione di moltiplicare le esemplificazioni, ma queste poche sono sufficienti – ritengo – per dare un’idea di quanto prezioso possa essere uno strumento come questo approntatoci da Muraglia, tanto accorto filologicamente quanto accessibile anche da parte di chi non si è mai accostato al mondo della Divina Commedia o l’ha “frequentato nelle aule scolastiche ma in modo nozionistico e non significativo” (p. 9).

 Augusto Cavadi

Per la versione originaria illustrata cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/lintramontabile-attualita-della-divina-commedia/

venerdì 25 ottobre 2024

SE NE E' ANDATO ANCHE GUSTAVO GUTIERREZ, PADRE DELLA "TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE"

 

Martedì 22 ottobre se ne è andato, alla rispettabile età di 96 anni, Gustavo Gutiérrez, il frate domenicano considerato unanimemente il padre della “Teologia della liberazione” latino-americana. Benché cattolico, la sua opera è stata influente oltre i confini della sua confessione religiosa: vi si sono riconosciuti, riprendendola e rilanciandola, pensatori e militanti di Chiese protestanti e di movimenti politico-culturali ‘laici’.

Per la mia generazione la “Teologia della liberazione” ha costituto una ventata d’aria fresca negli ambienti alquanto asfittici del mondo cattolico europeo: a Palermo l’abbiamo tradotta, in libri e iniziative sociali degli anni Ottanta, come “Teologia del risanamento” (formula proposta dal teologo don Cosimo Scordato). il Gesù della teologia dogmatica ellenistica, bizantineggiante, veniva deposto dalle nicchie più elevate dei templi e – grazie a una lettura esegeticamente aggiornata dei testi evangelici – restituito alla strada: alla verità storica di un Profeta nomade divorato dalla passione per l’avvento del “Regno di Dio”.

Ma cosa intendeva con questa formula un ebreo del I secolo dell’era volgare?

Che i regni dei potenti di questo mondo erano destinati a frantumarsi per fare spazio ai criteri di libertà, giustizia, fraternità del Dio annunziato da Cristo. La “buona notizia” non riguardava dunque principalmente le “anime” individuali, ma le “persone” (nella loro integrità psico-fisica) in quanto membri del “popolo” : e non il loro futuro escatologico, dopo la morte, bensì il loro presente storico.

Una rilettura così rivoluzionaria del vangelo interrogò papa Giovanni XXIII, i vescovi del mondo riuniti nel Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 63) e papa Paolo VI: ne suscitò perplessità e dubbi, ma ne stimolò anche la produzione di documenti epocali come le encicliche Pacem in terris e Populorum progressio  e la Costituzione conciliare Gaudium et spes.

Poi è arrivato il lungo inverno della repressione autoritaria di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI: a colpi di scomuniche e di ritiro dell’autorizzazione a insegnare nelle università cattoliche hanno contribuito alla crisi della “Teologia della liberazione”. Tramontato dunque per sempre il sogno di Gutierrez e dei suoi numerosi compagni e discepoli? Il cristianesimo torna ad essere, irrimediabilmente, l’ideologia che giustifica le sperequazioni fra pochi sempre più ricchi e molti sempre più poveri?

In molti lo hanno ritenuto, ora con sconforto ora con soddisfazione, sino al 13 marzo 2013 quando dal balcone di san Pietro si è affacciato un papa sud-americano chiamato “quasi dalla fine del mondo”. Con Francesco la “Teologia della liberazione” torna a zampillare a cielo aperto dopo un lungo periodo di scorrimento sotterraneo. Se non si tiene presente questo, non si capisce la radice dell’opposizione non solo dei governi degli Stati capitalistici, ma anche del clero e dei fedeli tradizionalisti, a papa Bergoglio.  Vincerà la dura battaglia? Difficilmente. Egli infatti è tanto aperto sulle questioni pastorali e sociali quanto conservatore in ambito teologico, etico e istituzionale (o almeno si mostra così per non moltiplicare a dismisura il fronte dei suoi avversari ‘interni): e questa timidezza gli aliena le simpatie delle frange progressiste del mondo cattolico che, altrimenti, sarebbero i suoi alleati naturali.

La partita è dunque aperta. Gutierrez non ha chiuso gli occhi a questa vita con la gioia piena di chi ha visto realizzato il suo impegno “con i poveri e contro la povertà” (come scrisse nel suo Bere al proprio pozzo. L’itinerario spirituale di un popolo  del 1983); ma neppure con disperazione. La crisi teorico-pratica del marxismo (nel quale i teologi della liberazione riconoscevano, insieme a molti difetti intollerabili,  istruttivi strumenti di analisi della società e interessanti indicazioni operative) ha certamente affievolito molti entusiasmi, ma non ha seppellito tanti esperimenti di partecipazione democratica ancora attivi qua e là sul pianeta. Come scriveva lo stesso teologo peruviano, “il popolo degli oppressi, durante la traversata del deserto conosce i fallimenti, la tentazione di tornare indietro, ma anche i successi e soprattutto la speranza nel Dio che libera e che dà la vita”.

Augusto Cavadi

* L'articolo originale con corredo fotografico qui:

https://www.zerozeronews.it/laddio-a-guitierrez-non-seppellisce-la-teologia-della-liberazione/