Terzo
commento richiestomi dall’agenzia di stampa “Adista”
per la rubrica “Fuori dal tempio”
Domenica 14 dicembre 2025
TERZA DOMENICA DI AVVENTO
MT
11, 2 – 11
Una
nota storiella ebraica racconta del rabbino che ogni mattina si affaccia alla
finestra per vedere se per caso sia arrivato il Messia. Puntualmente osserva
ciò che avviene per le strade del mondo: i ciechi continuano a non vedere, gli
zoppi a zoppicare, i lebbrosi a mostrare orribili piaghe, i sordi a non
sentire, i morti a giacere sotterra e i poveri a intristire nella miseria. E
allora richiude le imposte e amaramente conclude: “Neppure oggi è arrivato il
Messia”.
Il
vangelo odierno racconta esattamente il contrario: a Giovanni Battista si riferisca
che i ciechi vedono, gli zoppi saltellano, i lebbrosi si trovano una pelle
liscia da bambini, i sordi odono, i morti sono tornati a passeggiare nel loro
quartiere e i poveri hanno ripreso il coraggio di liberarsi dalla loro
schiavitù. Sì, glielo si riferisca ed egli capirà che l’attesa del Messia si è
finalmente, e gioiosamente, conclusa.
Dopo
duemila anni di tragedie storiche, di cui le varie Chiese cristiane sono state
spettatrici e in molti casi attrici, a quale delle due narrazioni credere?
Sul
piano dei fatti, degli eventi
empiricamente registrabili, non mi pare che ci siano dubbi: mutano le culture,
mutano le religioni, mutano le giustificazioni ideologiche, ma la marea della
sofferenza totale permane costante. Nel micro della quotidianità ha ragione
l’ironia di Marcello Marchesi: “Che bella cosa il progresso! Si vive più a
lungo, si muore più spesso!”. Nel macro planetario è più arduo ironizzare: infatti
ai progressi in un campo, ad esempio l’ambito medico-scientifico, corrispondono
regressi in altri campi, ad esempio quello economico, dove al diminuire della
povertà assoluta corrisponde l’aumento della povertà relativa (senza contare
quelle aree del mondo in cui le monocolture intensive su scala industriale
sradicano le pluricolture a regime familiare che garantivano una sobria, ma
stabile, autosufficienza alimentare).
Se
i dati oggettivi sono questi, non restano che due vie (a mio avviso, nonostante
le apparenze, compatibili e integrabili).
La
prima la indica una ‘variante’ della storiella ebraica precedente. Aaron
Funkelstein, rabbino a Leopoli, malinconicamente si alzava ogni mattina,
malinconicamente andava alla finestra e malinconicamente diceva: «Il Messia non
è venuto perché nulla vedo di cambiato». Una mattina andò alla finestra e
disse: «Se anche il Messia viene, non è detto che cambi qualcosa». Da quel
momento smise di andare ogni giorno alla finestra e di essere malinconico. E’ l’accettazione
del tramonto definitivo di un messianismo ingenuo che attende - si potrebbe
dire in un orizzonte teistico - la salvezza dall’Altro e dall’Alto.
La seconda via è d’intendere la pagina di Matteo (come tante altre dei vangeli canonici ed extra-canonici, a cominciare dal Discorso della Montagna con la proclamazione delle beatitudini) più come un sogno, o un progetto, che come un resoconto storiografico. Quando Matteo redige il suo testo sono trascorsi 40/50 anni dal passaggio terreno del Maestro: la vita collettiva non è stata stravolta in meglio, ma la speranza da lui accesa continua a brillare. Ora che di anni ne sono trascorsi due migliaia, possiamo apprezzare la lezione del rabbino di Leopoli: è sterile attendere irruzioni miracolistiche del divino e rosolarci nella delusione. Se non vogliamo cedere alla disperazione (e non ce ne mancherebbero i motivi!) dobbiamo intendere l’apporto del Messia (forse, meglio, dei tanti Inviati di Dio nella storia delle civiltà lungo i secoli) come l’offerta di una proposta, di un seme, di una piccola luce. In una prospettiva - che potremmo denominare post-teistica o trans-teistica - spetta a noi rendere attuale la rivoluzione messianica, come raccomanda in una sua Lettera ai bambini (aggiungo: di ogni età) il geniale Gianni Rodari: “E’ difficile fare/ le cose difficili:/ parlare al sordo,/ mostrare la rosa al cieco./ Bambini, imparate/ a fare le cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi/ che si credono liberi”.
Augusto Cavadi
“Adista/Notizie”,
n. 14 del 15.11.2025